Verso Ovest
di Roberto Bertani

 

Le nubi avevano coperto quella fetta di luna ed ora non gli riusciva di vedere che a pochi metri oltre il ciglio del caposaldo. Più in là, un buio caliginoso nascondeva ogni cosa e pareva che del mondo non fossero rimasti che quei pochi metri all’intorno che a fatica lo sguardo riusciva a perforare. Tendeva l’orecchio, trattenendo il respiro, per cercare di percepire, almeno, il rumore dell’insidia che quell’oscurità poteva nascondere, ma sentiva solo, di tanto in tanto, il ticchettio di qualche granello di neve gelata contro l’acciaio dell’elmetto.
Faceva freddo e l’aria gelida che scendeva dal nord, che non era  vento ma aria tesa, un soffio sempre uguale, costante, gli feriva il volto ogni volta che volgeva inutilmente lo sguardo verso il caposaldo vicino, alla sua sinistra, oltre il campo minato. C’erano gli alpini là e questo gli dava sicurezza, lo faceva sentire tranquillo. Erano ben organizzati loro, ben addestrati e poi… erano gli alpini, ecco! Lo sapevano tutti di che pasta erano fatti gli alpini! Si, gli dava sicurezza saperli vicini.
Ma aveva freddo. Sentiva il freddo salire dai piedi lungo le gambe, la schiena e su, su, sino al capo, al cervello.
Gli pareva che anche il cervello si fosse congelato e un dolore acuto gli serrava la fronte. Cercò di muovere le dita dei piedi, dentro gli scarponi. Non li sentiva più i piedi. E nemmeno le mani, quelle mani diventate dure, quelle povere mani che non avevano più la forza di reggere il moschetto, che era scivolato giù, sino ad appoggiarsi sul ghiaccio. Era scosso da lunghi brividi e incassò ancora di più la testa dentro le spalle e si aggiustò il colletto sollevato del pastrano nel vano tentativo di ripararsi meglio da quel freddo bestiale e ancora una volta trattenne il fiato e ascoltò il silenzio irreale che avvolgeva tutto quel ghiaccio.
Era tutto ghiaccio laggiù, solo ghiaccio. Un’unica, grande, enorme distesa di ghiaccio duro come il marmo. Un mare di marmo, ecco cos’era! Un mare di marmo. Anche il fiume era di marmo, un immenso nastro di marmo; era da lì che veniva il pericolo. Perché se quel marmo non veniva scalfito nemmeno dallo scoppio delle granate, immaginarsi il peso di quanti uomini poteva sopportare! Magari poteva reggere anche il peso dei carri. Allora si, sarebbero stati dolori!

Era perso in questi pensieri quando un rumore inaspettato, debole, ma chiaro in quella solitudine silenziosa, lo investì improvviso e gli sembrò che il cuore gli si spaccasse. Cercò affannosamente di imbracciare il moschetto (ma avrebbe poi sparato il moschetto, o era diventato un pezzo di marmo anche quello; il pensiero gli baluginò nella mente) e, come gli avevano insegnato, il grido gli uscì  affannosamente dalla gola: - Chi va là… Chi va là! -. Ma ormai l’ombra gli era addosso
- E piantala di gridare! Chi va là…?! Chi va qua! Non vedi che sono qua? -. Dalla macchia grigioverde spuntavano solo due piccoli occhi scuri.
- Cosa facevi, dormivi? Non mi hai sentito arrivare? -
- Chi sei? -
- Sono il cambio ostia! Sveglia! Vai dentro vai, vatti a scaldare! Tocca a me adesso -.
Il cuore aveva rallentato quel battito furioso. La scarica di adrenalina stava cessando.
- No, no, non dormivo… Grazie… Si, vado… Ciao, buona notte -.
Non aveva fatto tre passi e già si dava del cretino. Buona notte! Con trenta gradi sotto zero, all’aperto, fermi, coperti di stracci e, magari, con la pattuglia russa sotto il naso. Buona notte! - Cretino! - si bisbigliò.
L’aria del nord gli portò il suono lontano di una “pesante” che aveva incominciato ad abbaiare e ancora un brivido lo colse. Non per il freddo.

Si tuffò nel caldo umido del rifugio,  in quell’aria fatta di grasso da scarpe, di rancio, di fumo stantio, di sudiciume, di pomata anticongelante, di abiti umidi, di sudore e di chissà cos’altro ancora. Solo pochi giorni prima, quando era arrivato al reparto, giovane rincalzo di appena vent’anni, quel tanfo lo aveva quasi disgustato; ora si abbandonò a quel profumo che dava sicurezza. Era lì che si era riparati dal gelo, era lì che si poteva riposare; dove i proiettili non arrivavano, dove si poteva trovare un po’ di pace, dove ci si sentiva protetti. Era come il profumo di casa, insomma.
C’erano stati gli alpini, prima; li avevano costruiti loro quei rifugi. Avevano lavorato bene.
- Non chiudere, lascia aperta quella porta! Si crepa qui dentro! - Era Vescovi, un richiamato.
- E piantala Vescovi! Va fuori e vedrai che ti rinfreschi! -
- Non posso, mia madre non vuole che prenda freddo! -. Aveva sempre voglia di scherzare quello lì.

Si avvicinò alla stufa, si tolse il pastrano e quegli scarponi fatti di niente e li mise ad asciugare e piano piano il volto incartapecorito incominciò a riprendere colore, le mani a muoversi più sciolte e incominciò a sentire i piedi. Ancora un piccolo brivido lo percorse per il contrasto fra il tiepido abbraccio al quale si abbandonava voluttuosamente ed il freddo di prima; si lasciò cadere sulla branda.

La madre di Vescovi non voleva…. Nemmeno sua madre avrebbe voluto; nessuna madre avrebbe voluto. Sorrise.
Sua madre! Era stata contenta, sua madre, quando aveva saputo che era stato destinato alla fanteria, anziché agli alpini come era quasi di regola nella sua città. Aveva pianto, sua madre, quando aveva saputo che era stato destinato alla Vicenza. Perché la Vicenza era in Russia. Gli occhi gli si riempirono di lacrime.

Ora era lì, in prima linea. Prima del suo arrivo la Vicenza aveva dato il cambio alla Julia sul Don. La Julia era andata a turare una falla che si era aperta più a sud, dalle parti della Cosseria, si diceva. Ma sarebbe tornata. La Julia avrebbe respinto i russi poi sarebbe tornata e la  “Brambilla”, come la chiamavano gli alpini, avrebbe ripreso il suo posto nelle retrovie, lontano da quel luogo d’inferno.
Si, d’inferno! Perché lì si combatteva, lì si gelava, lì si moriva.
C’era anche chi diceva che i russi avevano sfondato, che ormai si era circondati, ma non riusciva a crederci; e poi, lo sapeva, “radio scarpa” è sempre pessimista, fa sempre le cose più grandi di quello che sono.
 Però laggiù, verso sud, nelle notti serene si vedevano dei bagliori; anche quella notte, prima che le nubi lo coprissero, il cielo era chiaro, come se la pianura fosse illuminata. Si combatteva, certo! Era la guerra. Ma come i russi non avevano  sfondato lì nonostante gli attacchi continui, pensava,  figurarsi se non erano stati fermati anche dalle altri parti! C’erano gli alpini là! Presto “radio scarpa” lo avrebbe detto.
Ma una sensazione indefinita, di disagio, forse, o di oscuro timore, lo colse: un’inquietudine strana che per fortuna la stanchezza riuscì subito a vincere.
Si addormentò.

 

                                                  ***

 Quando il tenente disse di prepararsi a partire rimase sbalordito.
- Dove andiamo sergente? Perché andiamo via? …cosa succede!? -
- Ci ritiriamo! -
- Torna la Julia? -
- Abbandonate tutto! Solo viveri e armi! Muoversi! Abbandonare tutto! -
- Ma come…, lasciamo la nostra roba agli alpini? -. Ma il sergente era già lontano, cane pastore attorno al gregge.
- Presto ragazzi! Il nostro plotone va in avanguardia. Fate presto! Appena fa buio ci muoviamo. Presto! Fate presto! -. Il tenente era agitato.
            Si spalmò un’abbondante quantità di pomata anticongelante, si mise addosso tutti i vestiti che aveva, chiuse lo zaino, controllò le giberne, il moschetto, contò le bombe a mano. Era un po’ impacciato nei movimenti, con tutta quella roba addosso, ma era pronto. Era quasi buio.


                                                                  ***

Si lasciò cadere nella neve con un sospiro di sollievo. Era stravolto, per la fatica e per quel freddo bestiale che aveva presto avuto ragione di tutti quegli strati di stoffa. Aveva sete, ma l’acqua nella borraccia era un blocco di ghiaccio duro come il marmo. Scagliò lontano, con rabbia, quel peso inutile e mangiò un po’ di neve.
- Via dalla strada ragazzi! Liberate la strada! Via, via! Devono passare gli alpini! - gridava il tenente. C’era un ufficiale che non conosceva con lui: aveva un cappello di pelo e sulle maniche del pastrano i gradi di maggiore. Era molto nervoso, lo si vedeva.
- Ecco gli alpini che tornano. Lo dicevo io! - pensò, e aguzzò lo sguardo verso il gruppo di isbe che si intravedeva appena, laggiù, alla luce fioca della luna, verso il quale erano diretti quando avevano ricevuto l’ordine di fermarsi. Si stupì quando si accorse che gli alpini, invece, risalivano la colonna. Andavano nella sua stessa direzione.
Li guardava a bocca aperta, avvolti nei pastrani incrostati di ghiaccio, con i loro muli stracarichi, le slitte stracariche, curvi sotto il peso degli zaini, molti con la penna ridotta a due o tre dita di bastoncino spelacchiato, le barbe imbiancate dal gelo.
- Di che reparto siete? - chiedeva.
- Tridentina - borbottò qualcuno.
- Dove andate? -
- A casa! - disse una voce alle sue spalle. - Dobbiamo andare con loro. Se riescono ad arrivare a casa gli alpini potremo arrivarci anche noi, altrimenti… . Dai, alzati! Si va a casa con loro! -. Ma era grave la voce di Vescovi, non era la solita. Non stava scherzando.

No, non stavano ritornando gli alpini, se ne stavano andando. Sfilavano in silenzio e venivano proprio dalla sua stessa direzione e anche loro erano diretti ad ovest. Gli sembrava impossibile.
- No! Mio Dio, no! - pensò - Se anche gli alpini si ritirano, allora… vuol dire che è davvero finita: “radio scarpa“ aveva ragione -. E un senso di sgomento lo invase e sentì il cuore stringersi in una morsa più fredda di tutto quel ghiaccio messo insieme.

Solo allora si accorse del chiarore che aveva acceso il cielo all’orizzonte. Sembrava un temporale estivo, con quelle luci intermittenti e continue che lampeggiavano ora qua, ora là. Ne avrebbe potuto sentire anche il rumore, un brontolio leggero, sordo e continuo, se il crocchiare dei piedi sulla neve, il battere degli zoccoli, le grida degli ufficiali che cercavano di tenere uniti i reparti, lo stridere dei pattini delle slitte, non lo avessero coperto.
 Si alzò in piedi e riprese faticosamente a camminare, seguendo quelle ombre nere che si stagliavano, nette, contro il fuoco che aveva acceso l’orizzonte.
            Proprio laggiù, verso ovest…

 

3° Premio Letterario Nazionale “ALPINI SEMPRE”  
Sezione “Racconto inedito”. Opera vincitrice.
Ponzone (AL), 30 Ottobre 2005

Scarica la motivazione del premio (in formato .pdf)


Roberto Bertani, parmigiano... doc, parafrasando Giovannino Guareschi usa presentarsi come “padre di tre numerosi figli”.
Dopo una vita trascorsa alla Telecom è ora in pensione e coltiva la passione dello scrivere.Soprattutto su argomenti di guerra, trattati a suo avviso troppo raramente, e quelle poche volte in modo interessato e fazioso.
Spera con ciò non tanto di vedere pubblicate le proprie opere, quanto piuttosto di lasciare una traccia a figli e nipoti.
Non ha fatto il servizio militare. Era destinato all'Artiglieria da Montagna; purtroppo - tiene a precisare - è stato esonerato.
Porta il cappello alpino, perché canta nel coro della Sezione ANA di Parma; resta però dell'idea che il cappello lo debbano portare solo gli Alpini.
Con il racconto inedito Verso Ovest ha vinto il Premio Alpini Sempre 2005.
Considera la sua partecipazione al Concorso un' "alzata d’ingegno”, che spera non si ripeta più. Però è contento di averlo vinto, perché in tal modo ha trascorso un’altra giornata memorabile col cappello alpino in testa, sentendolo un po’ meno “preso a prestito” del solito.

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