Chi trova un amico...
di Mario Grigioni con Otto Holzknecht

 

Il termine portoghese saudade, pur se di origine latina, non ha una traduzione diretta in italiano. Per saudade di solito s’intende un insieme di sensazioni combinate, difficili da sintetizzare in una singola parola: nostalgia, solitudine, malinconia, distanza dagli amici e dagli affetti familiari, disagio ambientale. Sono clamorosi gli esempi di saudade collettiva dei tifosi brasiliani dopo una sconfitta della loro squadra del cuore.

Anche se intraducibile, la saudade è ben presente nella nostra cultura. Gli esperti sostengono, ad esempio, che ne sia pervasa la lirica del grande Fabrizio De Andrè. E per quanto sembri strano, nemmeno il microcosmo della SMA, la Scuola Militare Alpina di Aosta, normalmente teatro di grandi sghignazzate, canti goliardici e bevute in compagnia nelle serate libere dal servizio, ne era immune. L’archivio storico dei corsi AUC, custodito dal vecio sergente Artemio Scavazzini, documenta il caso dell’AUC Leonardo Lanterna che, strigliato ripetutamente da un caporalmaggiore troppo burbero, giunse al punto di scrivere… alla mamma, per trovare conforto.

In quei magici anni Sessanta del secolo scorso, un episodio ancora più clamoroso coinvolse l’AUC Felice Di Gioia, friulano di lontane origini pugliesi, e il sergente Ettore Tagliamonti, milanese. Ne fu testimone il sudtirolese Otto, prestigioso allievo del 48° corso AUC, che dopo avere custodito il segreto esattamente per mezzo secolo, lo ha recentemente svelato ai Fratelli di Corso, durante i grandi festeggiamenti per il cinquantesimo anniversario.

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Le prime due settimane di permanenza alla SMA erano normalmente sufficienti per ambientarsi e cominciare a intravedere anche gli aspetti positivi della naja. L’allievo Di Gioia era invece sprofondato in uno stato di tristezza lacerante. Si diceva che i genitori lo avessero "spinto" a iscriversi al corso AUC per farlo maturare, ma era evidente che egli non riuscisse proprio ad ambientarsi: soffriva forse la separazione dagli affetti personali, o la temporanea rinuncia alla vita agiata e spensierata cui era abituato. La sua saudade strideva apertamente con il clima di amicizia che si stava consolidando in camerata, ed egli appariva perennemente a disagio, quasi fosse un estraneo. Invano i suoi compagni tentarono di parlargli per aiutarlo, affinché si aprisse un po’ e condividesse le sue difficoltà.

La breve licenza di agosto non fece altro che peggiorare la situazione tanto che, al suo rientro in SMA, Di Gioia decise di affrontare il problema: «Devo trovarmi un mentore. Una persona di fiducia, con grande esperienza, in grado di ascoltarmi, di darmi buoni consigli e di seguire i miei progressi».

La scelta fu piuttosto travagliata. Scartati il Comandante e il Vicecomandante di Compagnia, perché di grado militare troppo elevato, analizzò con cura i comandanti di plotone. Pizzarelli, del 2°, sarebbe stato un ottimo candidato, ma era ormai prossimo al congedo. Morosini, del 3°, aveva scelto la carriera militare e la sua mentalità era troppo diversa. Albertini, del 4°, senza dubbio persona intelligente, aveva la pessima abitudine di deridere gli allievi in pubblico. Quindi nulla da fare. Di Gioia passò allora in rassegna i comandanti di squadra, arrivando a una short list di tre finalisti. Ferrari era un bravo ragazzo, però Piemunteis, quindi faus e curteis…: meglio non fidarsi. Dell’Andrino era di un paese vicino al suo: c’era il rischio che diffondesse la notizia. Tagliamonti, classico bauscia milanese, parlava a voce alta e voleva sempre avere ragione. Però, come rovescio della medaglia, da buon milanese era schietto e sincero. Pesati con cura i pro e i contro, Di Gioia prese l’importante decisione: avrebbe chiesto al sergente Ettore Tagliamonti di essere il suo mentore. Non si rendeva conto, il tapino, di ciò che lo attendeva. Si fece coraggio e alla pausa pranzo lo affrontò:
«Mi scusi, sergente, avrei bisogno di parlarle in privato, per un problema personale. Potrebbe dedicarmi qualche minuto del suo tempo?».
«Va bene, Di Gioia. Al termine dell’attività didattica mi aspetti davanti al circolo sottufficiali.»

In quel fatidico pomeriggio, terminato il servizio, Otto stava rientrando alla palazzina AUC quando notò la scena totalmente inattesa. Scrutò con più attenzione, aguzzando il suo occhio di falco di montanaro sudtirolese. «Sono proprio loro! Oggi non ho bevuto nemmeno un’ombretta. Non posso sbagliarmi!» Di fatto, in un angolo del cortile, l’AUC Di Gioia era a colloquio serrato con il sergente Tagliamonti. Otto si fermò a distanza per non origliare. Il body language dei due era chiarissimo: in tono accorato, e visibilmente emotivo, Di Gioia stava proprio aprendo il cuore al sergente il quale, in silenzio, si limitava ad annuire con evidente empatia.

«Oh, finalmente Di Gioia ha trovato il coraggio di aprirsi e di condividere la propria angoscia! Il sergente, con sua esperienza, saprà dargli dei buoni consigli, ne sono certo. Strano, però: per piangerci su, Di Gioia ha scelto proprio la spalla di Tagliamonti, che tutti considerano un emerito stronzo. Però… Guarda con quanta attenzione lo ascolta. E’ proprio vero: prima di dare giudizi sulle persone, bisogna pensarci bene!»

Sempre più coinvolto, Otto si trattenne per oltre mezz’ora, aspettando la risposta del sergente e l’eventuale reazione di Di Gioia. Di fatto, dopo avere pazientemente ascoltato la conclusione dello sfogo, Tagliamonti si sistemò bene il nodo della cravatta, si aggiustò il cappello sulla fronte e, in tono autoritario, stentoreo, bene udibile anche a distanza, espresse la propria opinione:

«E già, caro Di Gioia. Comunque sia: qui sono sempre e solo cazzi suoi», e senza aggiungere altro, si allontanò.

Per alcuni giorni, durante le ore libere dal servizio, Di Gioia fu visto vagare per la SMA in evidente stato di shock. Seguì comunque le lezioni, partecipò all’addestramento e, al termine del corso, fu promosso e assegnato al 7° Reggimento. Trascorse, su sua richiesta, l’intero sergentato in guardia fissa alla polveriera di Monte Zucco, in Cadore e, ottenuta la stelletta da ufficiale, prestò il suo servizio di OP in un remoto posto di vedetta, su nel Comelico.

Dopo il congedo, si persero le sue tracce. Nemmeno le ricerche del solerte Otto ottennero alcun esito. Si sparse la voce, ritenuta attendibile, di un suo trasferimento in Mato Grosso. Del resto, si sa, Brasile e saudade sono un binomio inscindibile. Addirittura sembra che, esplorando la foresta pluviale, si sia imbattuto in una tribù dedita al cannibalismo. Le conseguenze si possono facilmente ipotizzare. Ma forse sono tutte, semplici, leggende metropolitane.

Ci piace tuttavia pensare che, qualora mai leggesse questo racconto, Felice Di Gioia riesca, finalmente, a farsi una bella risata in ricordo dei “bei tempi della naja”. Non fosse altro che per rispettare il detto: “nomen omen” !

Mario Grigioni con Otto Holzknecht, da un ricordo del  48° AUC

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