Il vento dondola i grani

I generali tedeschi avevano passato l'inverno del 1941-42 a studiare piani e strategie nuove, i tecnici a preparare in segreto armi più potenti e i sergenti a istruire nelle caserme del Terzo Reich reclute e richiamati.

"Tutte le ruote girano per la vittoria" era il motto dei Tedeschi; "Vincere" il nostro. I Russi dicevano: dobbiamo resistere ancora un poco. Per la prima volta erano riusciti a fermare i Tedeschi sotto le mura di Mosca e, nell'inverno, a contrattaccarli e a batterli.

Il Battaglione Sciatori Monte Cervino lasciava allora la caserma di Aosta per il fronte dell'Est. Parecchie volte era stata rimandata la partenza perché l'equipaggiamento fosse perfetto: scarpe vibram, tute bianche, pastrani con il pelo, stivaletti di tela impermeabile foderati di pelle d'agnello. Armi automatiche leggere e moderne, preparazione tecnica accurata come per soldati finlandesi. Ma il Battaglione era di trecento uomini e all'Est c'erano milioni di soldati, tra i quali gli Italiani del Corpo di Spedizione, che certamente non avevano né la preparazione né l'equipaggiamento del Cervino.

Quaranta giorni impiegò il Battaglione per arrivare. Quaranta lunghi giorni attraverso tutta l'Europa Orientale. Nel cuore dell'inverno. Per strada cantavano "… quel lungo treno che andava a Stalino" sull'aria di "Monte Canino" del '15.

Dopo Vienna gelò l'impianto di riscaldamento e nei vagoni il termometro segnava meno venti. Sostarono qua e là per la Germania, la Cecoslovacchia, la Slesia. I Tedeschi, militari e civili, ammiravano, stupiti, equipaggiamento e soldati.

In Polonia si fermarono perché i partigiani avevano fatto saltare un ponte sulla ferrovia. Incontrarono i camerati alleati che venivano dal fronte. Feriti, congelati, macilenti e senz'armi. Negli occhi la visione dei combattimenti invernali.
"Come va la guerra?" chiese scherzoso un alpino che sapeva il tedesco.
Il Tedesco guardò fisso sorridendo amaro. Con disprezzo di tutto il mondo buttò una parolaccia e sputò.
Già. Forse non era solo questione di generali, di soldati, di armi. C'era, forse, qualcosa che non sempre quelli che studiano le regole della guerra riescono ad afferrare.

Proprio come dice Tolstoi: "Immaginiamoci due uomini che si battono in duello…, ad un tratto, uno degli avversari, sentendosi ferito, getta la spada e, afferrando il primo randello che gli capita, comincia a maneggiarlo…". E poi ancora: "Una delle deroghe più tangibili e più proficue delle così dette regole della guerra è l'azione di gente sparsa contro gente che si stringe in gruppo… Azioni cosiffatte appaiono sempre quando una guerra assume aspetto popolare…".

Il generale Luigi Reverberi, insieme a Don Carlo Gnocchi,  saluta alla partenza del treno per la RussiaQuando l'Ottava Armata nell'estate del '42 partì dall'Italia, era opinione che non dovesse arrivare in tempo. Gli Alpini erano per la strada del Caucaso. Sembrava che dovessero scendere oltre quei monti e, per l'Armenia e l'Oriente, congiungersi con le truppe che venivano dall'Egitto. Invece la Sforzesca aveva ceduto. I Tedeschi erano fermi a Stalingrado. I Russi contrattaccavano anche d'estate ed erano riusciti a costituire delle teste di ponte al di qua del Don. I partigiani molestavano le retrovie dal Mar d'Azov al Golfo di Finlandia.

La steppa era immensa, libera, senza fine né principio: erba, fiumi, girasoli, frumento, erba. Dov'era il nemico? Raffiche rabbiose di mitragliatrici tra le erbe secche, voragini di bombe nella terra nera e grassa, carri armati come fantasmi. Una notte mi persi tra erbe e stelle e inciampai all'alba nel corpo di un alpino con le scarpe al cielo. In settembre, con i resti della compagnia, rimasi isolato per giorni e giorni in un punto della terra con due inutili mitragliatrici. Si beveva l'acqua di una pozzanghera che poi, asciugata dal sole, mostrò i cadaveri dei nostri compagni.

Dopo un combattimento, di duecento rimanemmo in trenta e, per giorni, ci mandarono vino e posta e viveri per duecento. Distribuivo la posta; al Caporale…, all'Alpino…, al Tenente…. Quasi nessuno rispondeva e le lettere, nel cappello di un compagno morto, sono rimaste lassù. Per quei tre giorni nessuno di noi parlò. Si beveva il vino di tutti i duecento. Anche il vostro, centosettanta che mancavate. O dovevamo restituirlo alla Sussistenza? Con le lettere? Quelle lettere.

Non si andò avanti quell'estate; e, prima dell'inverno, su verso il Nord a piedi - sempre a piedi i poveri soldati italiani, in camion andavano solo quando c'era da morire in fretta e in tanti.

A darci il cambio erano venuti i Romeni e ora andavamo dagli Ungheresi; sul Don, a scavare, a scavare e scavare ancora in quella terra gelata sino al cuore profondo: piazzole, postazioni, camminamenti, trincee, ricoveri. Come i nostri padri nell'inverno del '16 sull'Ortigara.
Il fiume si solidificò e poi venne tutto il resto

Nel '44 i Russi entrarono in Polonia e in un campo di concentramento trovarono il generale Reverberi. Il comandante di un'Armata russa lo mandò a chiamare.
"È lei", disse, "il comandante della famosa Tridentina?".
"Sì, generale. Perché?".
"È stata l'unica divisione del settore Centro-Sud che ci è sfuggita. Volevo conoscere il comandante".
"No", rettificò Reverberi, "non vi è sfuggita. È stata l'unica che non siete riusciti a battere".
… l'unica che non siete riusciti a battere.

Ricordo le parole che il generale Reverberi mi disse qualche tempo prima di morire. Ma quanto ci è costato? Qualcuno ci aveva detto di andare oltre ma il nostro cuore ci ha portati qua. Si avanzava per andare a baita. Allora sì che abbiamo lottato per la nostra Italia, per le nostre valli, i nostri campi, le nostre donne.

Ci hanno detto che fummo meravigliosi. Forse sarà vero ma una lunga strada è stata segnata: ossa, zaini, scarponi, armi e sangue. Ora su queste cose il vento dondola i grani.

Mario Rigoni Stern
Da "Epoca", n. 456 del 28 giugno 1959

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