Il "generale gasosa"
ossia il generale Luigi Reverberi, comandante la Divisione Alpina Tridentina

La scomparsa del generale Luigi Reverberi, il cui funerale a Milano interruppe per un quarto d'ora il traffico di Corso Italia (perciò non tutti i pensieri rivolti al feretro erano di assoluta reverenza) trovò spazio nella cronaca dei grandi giornali d'informazione unicamente perché il morto era morto cadendo dalle scale. Se non fosse intervenuto questo particolare di cronaca nera, il pubblico italiano, il quale è tenuto giornalmente informato sulle letture in carcare di Adriana Concetta Bisaccia (ma non su quelle del "delinquente" Guareschi) e sui tagli d'abito del marchese Montagna di San Bartolomeo, avrebbe appreso la notizia dai necrologi a pagamento.

Reverberi era un uomo di sessantadue anni, brillante, polemico, effervescente, un tipo non fatto per piacere ai superiori. Nella maldicenza di Via Venti Settembre lo chiamavano il "generale gasosa", perpetuando con intenzione pungente un bonario epiteto affibbiatogli quand'era maggiore dai flemmatici alpini del battaglione Vestone. Da anni non comandava più niente perché lo avevano mandato a casa. Faceva il profumiere. Diciamo meglio, era il consigliere delegato di una antica e seria ditta milanese di saponi, cosmetici e acque carminative.

In Russia

Fu giusto in Russia che il "generale gasosa" rivelò la sua tempra. Egli comandava una divisione di alpini, la Tridentina. Altre due divisioni di fiamme verdi, la Julia (generale Ricagno) e la Cuneense (generale Battisti) erano schierate accanto alla sua, sul Don. Il 15 gennaio 1943 i russi, afondando ai lati, aggirarono l'intero corpo alpino (generale Nasci), chiudendolo in una di quelle sacche micidiali che la storia militare della seconda guerra mondiale registrerà tra le concezioni più sagaci e producenti della strategia sovietica. Prima ad iniziare il movimento, la Tridentina, formata dal reggimento Quinto e Sesto, e dal Secondo artiglieria alpina, si trovò ad essere la più compatta ed efficiente delle divisioni che si ritiravano sul Don, e per aver mantenuto, grazie al suo comandante, questi fondamentali requisiti bellici divenne il nerbo, se volete il ferro di lancia, di una massa di quarantamila sbandati che la seguivano passivamente, si tiravano da una parte durante la mischia, però erano sempre pronti a trarre il massimo profitto dalle situazioni.

Undici volte gli alpini, sorretti dal tiro a pennello dell'artiglieria e da qualche semovente germanico, si erano dovuti impegnare a fondo per rompere il cerchio. Il 26 gennaio la lunga colonna, simile a u immenso formicaio in trasferta, giungeva in vista di Nikolajewka. In Russia di Nilolajewka ce n'è una a ogni pié sospinto. Questa era una cittadina a nord-est di Charcov, sulla ferrovia, dove i russi s'erano appostati con cannoni e mortai. Poiché era in basso, al centro di una conca, e i ostri stavano sopra un vasto terrazzo, l'approccio non poteva effettuarsi che scendendo di corsa per le falde esposte, e risalendo quindi l'erta di un terrapieno, sul quale facevano linea i difensori. Un primo tentativo non riuscì. Un secondo, condotto ancora dagli alpini del Sesto, non ebbe esito migliore. Intanto il sole declinava, si sentiva nell'aria il brivido della sera. Allora furono fatti avanzare i battaglioni bresciani e bergamaschi del Quinto, che stavano alla retroguardia, si formarno due nuclei d'assalto, l'artiglieria alpina iniziò un tiro a raffiche, precisissimo. Al momento di scattare un generale pallido, febbricitante, balzò su un carro armato e al grido di "Tridentina avanti!" andò avanti coi primi, proprio come si legge nelle antologie scolastiche. QUesta volta il terrapieno della strada ferrata venne scavalcato. Il resto fu relativamente facile.

Nessuna battaglia fu più necessaria di quella, nessun eroismo più generoso. Espugnare Nikolajewka prima che la notte calasse il suo manto glaciale significava salvare migliaia e migliaia di esseri esausti, che non avrebbero resistito a un altro bivacco sulla neve. I valorosi ch'eran caduti in quel supremo scontro, al di là del quale era la salvezza, e il generale effervescente, che li aveva incitati fra le pallottole con quel grido da tifoso alla partita di calcio, evevano compiuto una buona azione. Innumerevoli madri e spose li avrebbero coperti di benedizioni, come infatti li coprirono. L'Italia democratica avrebbe potuto appropriarsi di Nikolajewka come esempio di ardimento speso per un ideale di misericordia, di sangue sparso per il bene comune.

Occhi pieni di lacrime

Invece no. Cessate le ostilità e cominciata l'epurazione, anche l'eroe di Nikolajewka dovette passare sotto le forche caudine delle commissioni di revisione, presiedute da politici settari e spietati, i quali procedevano nei suoi confronti con la stessa acrimonia ideologica con cui contemporaneamente, in Russia, su denuncia del senatore D'Onofrio, i russi procedevano contro Battisti e Ricagno, i due divisionari alpini caduti nelle loro mani. Così Reverberi venne collocato nella riserva. Si disse che dopo l'8 settembre la sua condotta fosse stata "incerta". L'incartamento di Nikolajewka non ebbe alcun peso sull'immorale giudizio, che troncava la carriera ad uno dei nostri più giovani e brillanti capi militari.

Quel giorno, non lunedì 21 giugno cadendo dalle scale di casa sua, morì il "generale gasosa". Effervescente nel settore profumiero come era stato sul campo di battaglia, felice con una compagna che adorava e con un figlio di cui andava fiero, quando si toccava nel discorso quel tasto dell'allontanamento dal servizio attivo i suoi occhi si riempivano di lascrime. In un altro paese egli sarebbe stato proposto ad esempio. In Italia è molto che non lo abbiano messo in prigione. Quando qualche giornale segnalò l'odiosità del fatto, l'allora ministro della Difesa, Pacciardi, riesaminò i precedenti, e fu lieto di controfirmare il decreto che conferiva a Reverberi, per l'episodio di Nikolajewka, la medaglia d'oro al valor militare; ma non volle, o non poté far nulla per richiamarlo in servizio.

Egli viveva con questa spina nel cuore quando una stupida morte lo tolse ad una vita artificialmente dinamica, che qualche volta doveva parergli inutile. Il giorno prima era stato in Valcamonica, ad un raduno di alpini, dove il sindaco di Edolo gli aveva consegnato il decreto di cittadinanza onoraria. Ma anche di questo la grande stampa non fece quasi parola. La sconfitta calcistica di Basilea pesava sugli spiriti. È questa la lezione, si leggeva nei fogli a larga circolazione, su cui bisogna meditare. La rinascita morale del nostro paese deve incominciare dai piedi.

Giorgio Venosta
Da "Penna nera delle Grigne ", n.9, luglio 1954. Già pubblicato su "Il Borghese", n.19.

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