Cuore alpino

Ero sottotenente del 5° Reggimento Alpini. Il 23 gennaio 1943 mi trovavo a Warwarowka, sul fronte russo, con attorno uomini di vari reparti che si erano confusi per forza di avvenimenti. Procedevo con lo schieramento di pattuglia, nel buio mattino, sotto il fuoco di grosse traccianti che venivano dalla collina, auando, in un quadrivio, i due occhi della pattuglia diedero l'allarme per i carri armati.

Con gesti decisi spostai gli uomini a ridosso di un'isba e messomi in un angolo della stessa spiai la situazione. Erano due carri avanzanti in fila indiana e così decisi di giocarli, per sfuggirli, defilandoci alla vista; e poi correndo cercare riparo nelle pieghe del terreno. Non avevamo possibilità momentanea di affrontarli per mancanza di mezzi idonei. Ma essi erano seguiti da fanteria appiedata, che ebeb modo di vederci, così cominciò la battaglia, che si era messa molto male per noi.

Lanciavano bombe a mano e rafficavano e sicuri della vittoria gridavano: "Rukivier, sdavaize!" (in alto le mani, arrendetevi!). Non c'era tempo da perdere e bisognava decidere, anche perché mi trovavo nel fondo di una buca con quattro uomini sopra che premevano sul fondo. Fatta tirar fuori un'arma, perché si facesse fuoco sul nemico che si fosse affacciato, pensai che l'arrendersi non ci avrebbe garantito la vita; il rimanere nella buca voleva dire far la morte del topo in trappola; e così, morto per morto, era meglio morire con un'arma in pugno.

Calmo, perché avrei potuto convincere meglio gli uomini, anche se facevo fatica per il peso che sostenevo, comincia a far mettere il naso fuori per sapere qual era la situazione. Mi venne riferito che ci erano a ridosso ed eravamo quasi circondati.

Sentivo, nel fondo della buca, l'odore della polvere bruciata delel bombe a mano. Cosa potevo decidere se non vedevo direttamente la situazione?

Con tutta calma, che mi sforzai di avere, dissi agli uomini che bisognava uscire dalla buca con le mani alzate: così avrei visto e deciso immediatamente. Non dovevamo temere, perché i russi non avrebbero sicuramente sparato, in quanto dovevano assicurare anche gli altri sulle loro intenzioni. Era chiaro che nessuno spara quando il nemico sta per arrendersi, ma poi quando è disarmato tutto è possibile. Avrebbero dovuto avanzare lentamente ed obliquamente e poi buttarsi a terra dopo quindici metri. Nel frattempo avrei urlato il da farsi.

Convinti, in breve lasso di tempo, uscirono lentamente, ed io mi trovai subito davanti al naso uno dei nostri che giaceva freddato sull'orlo della buca; non aveva trovato forse posto tra di noi che eravamo nella buca come sardine in scatola.

Vista rapidamente la situazione e scorto un gruppo sbandato dei nostri, alla sinistra, forse a duecento metri, pensai di dirigerci verso di loro per unire le forze e giocare l'ultima carta. Uscii dalla buca urlando: "Seguitemi", volai verso di loro in mezzo al fuoco degli italiani, che ci avevano preso per russi, e dei russi che, dopo la prima sorpresa, sparavano alle spalle.

Le vampe dei colpi dei nostri furono diverse, ma riuscii a fargli capire che eravamo dei loro, urlando e gesticolando.

Formai subito un quadrilatero allo scoperto e iniziò una veloce e coraggiosa battaglia, dove i nostri scaricavano le armi con velocità mai vista, tenendo i fucili sotto le ascelle, per non perdere tempo. Battevo la mano sulle spalle di ognuno per passare una parola buona e li invitavo a non sprecare troppe munizioni.

In breve il reparto di fanteria russo venne battuto e deci catturare l'unico superstite mandando due uomini, con manovra a tenaglia, e tenendolo sotto la minaccia d'armi puntate. I carri intanto avevano proceduto, superandoci, perché avevano certamente ritenuto di essere in soprappiù.

La battaglia aveva accalorato gli animi, mi sentivo come se con un petto d'acciaio avessi scardinato chissà quale ostacolo. Era molto facile, in tale stato d'animo, agire affrettatamente. L'unico superstite, armato di parabellum e di una pistola Beretta calibro 9 (italiana), doveva certamente pensare a tutte le soluzioni, tranne quella che decidemmo.

Tentai strappare qualche notizia sulle forze russe che ci erano attorno, ma ricavai ben poco. Il suo viso denotava il timore della situazione in cui si trovava. Pensai che portarlo con noi, ancora nella sacca, poteva rappresentare un fastidio in qualche particolare momento; non volevo ucciderlo, perché la coscienza me lo vietava e così decisi per uan soluzione del tutto nuova, ma che nascondeva radici profonde più forti del male. Dissi agli Alpini: "Dio l'ha salvato, e noi faremo altrettanto; l'accompagnerò per una ventina di metri e lo lascerò libero!". Gli uomini acconsentirono. Nessuno disapprovò, nemmeno col minimo mugolìo.

Quell'uomo andò, dopo che l'ebbi accompagnato per un tratto, esitante, scomparendo lentamente in un canneto, lasciando alle sue spalle una tremenda visione.

Sarà ancora vivo? Se così fosse non ci potrà certo dimenticare.

Noi avevamo ancora molto cammino da percorrere, fra gli scoppi e lo sgranare dei colpi, ma avevamo la coscienza tranquilla.

Vittorio Zanotti
da "Ocio a la pèna", n.1 anno 1966

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