Il lancio
di Paolo Scatarzi

 

01 dicembre 1983.
In fila, nella bruma di Pollein, gli AUC del 113° sono in attesa di cimentarsi nel lancio della SRCM. E’ una di quelle mattine d’ardesia in cui un sole invisibile fa solo luce e la campagna, a giro d’orizzonte, trasuda umore gelido, che fatica a sollevarsi.
Il trasferimento dalla CB tra le vie di Aosta ancora assopita, poi lungo la statale umida di asfalto, è stato il solito inferno affannoso di falcate pesanti: centoquarantasette AUC a vapore, mani sul fucile, a ritmare la fatica.
Nella brina del campo d’aviazione, la breve adunata ha restituito una vaga umanità: cambiarsi la maglia di lana, intrisa di odore che evapora; una sigaretta strappata al recupero di ossigeno, non ostante tutto; un po’ di cioccolata da scrocchiare tra i denti, più per il morale che per fame. Qualcuno una foto.
Ora, tutti in fila, gli allievi battono i piedi e si strofinano le mani, tornate fredde a bassa circolazione, in attesa del piatto forte del giorno: la bomba a mano.
Il 113° corso è ancora giovane ma già si fa sul serio. Tra due giorni gli allievi giureranno fedeltà alla Repubblica. Il lancio della bomba a mano e il tiro con la carabina da 22 mm completano l’addestramento alle armi, che abilita ai servizi di guardia e sorveglianza.

Le SRCM sono allineate in bell’ordine su un tavolino pieghevole, rosse sotto la loro camiciola di alluminio traforato. Attraenti e inquietanti come ogni pericolo. Le consegna l’allievo Prazzani, seduto al tavolo, spuntando a penna da una lista il nome di chi è passato. Intorno a lui, due Cm_Asco sorvegliano le operazioni e scherzano goliardicamente, aggiustandosi i guanti di pelle sulle mani. Hanno il bavero della SCBT alto sulla nuca e la visiera della norvegese incurvata oltre ogni limite di gusto e decenza. Alle loro spalle, i sottotenenti entrano ed escono dalla tenda a 5 teli della D.E. da cui gracchia la radio di Compagnia, la RV3, e dove qualcuno ha riposto un thermos di caffè caldo, che presto finirà. Il Capitano, mani infilate nel cinturone, osserva compiaciuto i suoi uomini al lavoro. Poco più in là, dietro la rada vegetazione secca, si percepisce il movimento placido della Dora.

Gli allievi avanzano uno alla volta, quando il lancio precedente è terminato. Il primo della fila, chiamato, si avvicina al tavolo indossando l’elmetto, che gli pende sul sedere dal cinturone. Preleva la bomba e si dirige alla piazzola, verso un castelletto di legno e sacchi di sabbia, che protegge l’istruttore. Ricevuto l’ordine, strappa la sicura, effettua il lancio e si distende a terra in uno sbalzo, prima che avvenga lo scoppio.
Gli altri seguono attentamente il ripetersi delle operazioni. In tutti c’è curiosità; timore dell’ordigno che si avrà tra le mani; paura indefinita, e sempre viva, di vedersi affibbiare nuovi giorni di consegna. Un nervosismo latente, mal celato, percorre la fila di chi aspetta e osserva. I commenti, pure scherzosi, sono venati di inquietudine.
Qualcuno, tra tanti, tace la sua preoccupazione e si limita a non perdere un gesto dei colleghi, per non sbagliare poi.

A volte, la tensione esalta. Altre consuma.
L’allievo Marzani, ricevuta la bomba, si avvicina esitante alla piazzola. Non guarda l’istruttore. Non guarda nessuno. Ha gli occhi fissi davanti a sé, ma la mente congelata tra le mani. All’ordine, in un unico movimento che sa di frenesia, toglie la sicura lancia e rimane poi lì, impalato.
Un gesto veloce e incompiuto, rappreso, asfittico.
La bomba si alza lenta, assolutamente verticale su di lui. Nessuna profondità, nessuna parabola, ma trecento occhi incollati al suo viaggio silenzioso.
Rapido panico, a seguire: fulmineo spintone dell’ufficiale istruttore al malcapitato, impietrito dalla paura, e fuggi fuggi, prima che ricada l’aggeggio.
Botto.
Urla bestiali subito dopo; cazzotto sull’elmetto. Braccio disteso a indicare l’ignominia.
        Il solito freddo di sempre, a Pollein.
        L’ufficiale istruttore ne esce con un graffio di scheggia sul polso, uno su un polpaccio, e una gran paura, dopo. Viene medicato e sostituito.
       
        E’ consentito, a chi vuole, accompagnare il lancio della bomba con un urlo. Un rudimento di psicologia per combattere le titubanze, per acquisire coraggio. Molti allievi lanciano senza fiatare. Qualcuno, involontariamente, rivela la sua inadeguatezza, producendosi in un vagito. Tra tanti c’è chi, invece, per naturale inclinazione, è più baldanzoso.
        L’allievo Ottolivi, prelevata la sua bomba a mano, si avvicina al punto di lancio senza la minima esitazione, senza rallentare il passo elastico e deciso. Accenna uno o due salti di corsa per darsi il giusto slancio, mentre riceve l’ordine di esecuzione. Stacca la linguetta, arcua la schiena e scaglia via la sua SRCM prorompendo in un grido stentoreo:
“Viva la figaaaaa!”
Poi atterra perfettamente sulle braccia con uno sbalzo plastico, da pallavolista.
        Per tre o quattro lunghissimi secondi tutto si fa silenzio. Seppure in assenza di eco, lo spazio aperto sembra risuonare di quella invocazione, sconcia, disperata ed esemplare. Il coraggio di una tale esclamazione, ma anche l’innegabile realismo dell’appello, da coscritti, esclusi dalla vita, paralizza gli allievi. Sconcerto; divertimento; istantanea solidarietà col gesto; timoroso dissenso. Ma soprattutto attesa. Trasalimento e attesa, per la reazione del Capitano.
Lo scoppio secco della bomba sveglia tutti e ricompatta il tempo, dilatato dall’assurdità.
        L’allievo si rialza e rientra nei ranghi, sorridendo.
        Il Capo, poco distante, imperturbabile, lo squadra e gli dice:
“Stia punito, Ottolivi. Sette giorni. …Complimenti. Bel lancio”.
Poi si gira verso la Dora e s’immerge nell’infinito dei suoi pensieri.

 

 

Paolo Scatarzi (fly_scat@alice.it), è nato a Roma nel 1961. Ha frequentato il 113° corso AUC alla Scuola Militare Alpina nel 1983 e prestato servizio di prima nomina nella Compagnia Controcarri della Brigata Alpina Julia, a Cavazzo Carnico. Sposato con due figli, vive a Roma.

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