Quando scorre un fiume d'amore
di Fabio Raffaelli

 

Ci sono collegamenti che, a prima vista, appaiono inspiegabili. Di professione giornalista, ma soprattutto curioso per natura, con il passare degli anni ho cercato di darmi sempre spiegazioni sul perché certe cose accadono, quale è il ‘filo rosso’ che le unisce, a dispetto del tempo (e nella nostra vicenda spazieremo dal 1941 ai giorni nostri), della distanza, della religione o altro.
Ed era quello che cercavo di scoprire, nel canicolare pomeriggio di sabato (un maggio da sembrare ferragosto) mentre mi recavo in via San Vitale per presentare ‘Yol, prigioniero in Himalaya’ scritto da Mainardo Benardelli, diplomatico di carriera con un importante ruolo ricoperto recentemente a Bagdad, per ricordare il padre Gualtiero, fatto prigioniero dagli Inglesi durante l’ultimo conflitto mondiale e ‘segregato’ per anni ai piedi di quello che più amava nella vita, la montagna, quella dalle nevi eterne. Quella così alta che finisce per trasformarsi nel sogno (o nell’incubo?) di qualsiasi scalatore.

Torniamo al nostro ‘filo’: da una parte un uomo, dei compagni di sventura, un campo di prigionia speciale (un’anomalia, se vogliamo, nel contesto delle atrocità della seconda guerra mondiale, visto che agli italiani, al momento della cattura, viene ancora riconosciuto l’onore delle armi). Dall’altra, a distanza di decenni da quei giorni, centinaia di piccoli ugandesi che sorridono alla telecamera di Massimo Guandalini, farmacista bolognese (lì, nella sperduta missione di Kitanga lo chiamano, pensate un po’ che affronto per lui che si sente un giovanotto, ‘Shvenkuru’ che, anche a tradurlo bene, viene sempre fuori nonno). Eppure tra quegli uomini, mi ripetevo, che bruciavano pezzi di carta negli scarponi ridotti a blocchi di ghiaccio per ammorbidirli un po’ e quei bambini in fila per ricevere un pasto caldo, vocianti, allegri come, nonostante le mille assurdità dei nostri tempi, sanno esserlo i giovani doveva esserci un collegamento. Poi, improvvisa, la rivelazione: ma certo, come avevo fatto a non capirlo, c’entrava l’amore. Benardelli, per sei anni prigioniero a 20 chilometri da Dharamsala dove oggi risiede il Dalai Lama, aveva scritto alla sua famiglia decine di lettere d’amore. Nascondendo ai suoi cari le privazioni, le sofferenze, il freddo, la fame pur di non pensarli tristi o depressi (scriverà appassionatamente anche al padre, non sapendolo ancora morto). Raccontando, alla sorella Myriam, la felicità per la concessione di un permesso premio di un mese (pensate, sulla parola) che gli permetterà di esplorare una delle zone più suggestive dell’Himalaya (Gualtiero era un vero esperto di alte vette) e nascondendole che un cucchiaino di zucchero e qualche galletta erano il menù quotidiano. Benardelli (che si salvò e tornò a prestare servizio prima in Africa poi, come ambasciatore, nello Yemen e in Honduras) aveva amato tante cose, la famiglia, i suoi ideali, la Patria lontana, la montagna e oggi, in un canicolare pomeriggio bolognese, ritrovavamo intatto quell’amore, quel fiume di bene che, grazie al libro di Mainardo, è tornato a far del bene, regalando un nuovo sorriso ai bimbi senza nulla di Kitanga. Lì, da ‘Libri Incontro’ (una bella libreria, proprio sotto le Due Torri, che andrebbe esplorata e apprezzata per quel che vale) stavamo celebrando una festa. Il regalo di Gualtiero, passato attraverso le mani non solo di Mainardo, ma anche tra quelle del farmacista Massimo, di Livio Franco del Gruppo Alpini di Bologna, di Paolo Zanzi e di Filippo Rissotto, responsabili editoriali di ‘In punta di Vibram’, dei Veci del XXXIII e XXXV corso AUC Scuola Militare, arrivava nell’Uganda più profondo grazie ad un libro i cui proventi verranno integralmente destinati a questa ‘città dei bambini’ africana. Per tutti un pomeriggio indimenticabile, pieno di vibrazioni, emozioni. Che ci obbligherà (ma sarà solo un piacere) a ritrovarci insieme.

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