| El Alamein di Giovanni Prestini
    L’uomo, sui quarantacinque anni, segaligno e vestito  da turista tropicale, si accosta e mi sussurra qualcosa che mi sfugge, ma  l’eloquenza del gesto con cui mostra la macchina fotografica è chiara: chiede  di farmi una fotografia. No, non sono un divo del cinema o un campione  sportivo, però sto reggendo, fiero e rigido sull’attenti, il vessillo della  Sezione di Brescia davanti all’altare eretto nel sacrario italiano di El  Alamein. L’uomo, un tedesco dall’accento, mi fa capire che ha seguito il nostro  gruppo dal sacrario tedesco lì vicino e che è rimasto ben impressionato dal  nostro comportamento in quel luogo. Faccio un cenno d’assenso e lui scatta una  foto, poi due, poi tre e poi tante altre. Evidentemente non è di tutti i giorni  incontrare il Vessillo di una Sezione Alpina con sette medaglie d’oro al valore  militare e tre al merito civile in quel luogo. Probabilmente è ancora meno  facile incontrare ragazzi di diciotto, vent’anni che sanno comportarsi così  compostamente durante una vacanza.
          Ora, lasciatemi spiegare alcune cose. Mi trovo nel  Sacrario di El Alamein, progettato e costruito da Paolo Caccia Dominioni, (eroe  della Resistenza, in precedenza comandante del 31° Battaglione Guastatori  Alpini, e prima ancora del 30°   Guastatori del Genio, che proprio a El Alamein con i “Ragazzi” della  “Folgore”, con i Fanti della “Pavia”, della “Brescia”, di altre divisioni  italiane e tedesche, aveva dato filo da torcere alle truppe di Montgomery,  cedendo ai suoi carri solo dopo aver finito le munizioni, viveri e bottiglie  incendiarie), dopo un’idea maturata tra Brescia e Padova. L’università di  quella città, su sollecitazione del Dott. Moretti, figlio di un reduce  d’Africa, sta realizzando un piano per il recupero delle opere belliche  dell’Africa settentrionale e si è concentrato sulla zona di El Alamein, proprio  perché il padre di Moretti là ha combattuto con i Carri del 132° reggimento  Ariete, IX Rtg. Carri M 13/40. Sarebbe interessante riproporre la storia di quegli eventi,  ma forse non è questo il momento: adesso mi preme raccontare la meravigliosa  avventura che mi ha portato nel deserto all’ospedale di Qaret el Abd e alle  colline di Qaret Himeimat, veri contrafforti rocciosi sul limitare della  depressione di Qattara.
   L’amico Roberto Viani, insegnante dell’Euroscuola di  Brescia e maggiore della riserva qualificata, con trascorsi di leva nelle  truppe alpine, è con altri riservisti bresciani l’inventore del progetto “Training  day”, che vede da sei anni studenti delle superiori di Brescia seguire  allenamenti e misurarsi poi in varie discipline e prove fisiche, non solo per  la soddisfazione di dire un giorno “io c’ero”, ma soprattutto per apprendere  sentimenti e ideali poco di moda oggigiorno, quali amicizia, cameratismo, amor  di Patria, rispetto degli altri, spirito di sacrificio e comunitario. Viani mi  ha coinvolto nel suo progetto. Da contatti avuti con il Dott. Moretti, è nata  l’idea di far partecipi gli studenti del Training day del progetto El Alamein e  così, un bel giorno, ecco il Dott. Moretti a Brescia a raccontare le sue  avventure nel deserto e le vicende della seconda guerra mondiale in una serata  che ha ammaliato ragazzi e genitori. All’epoca presi contatti con chi di dovere  in Egitto, dopo di che un gruppo di diciotto studenti, cinque accompagnatori e  due genitori il 12 aprile presero il volo da Malpensa per Cairo.   La mattina di martedì 13 maggio, caricati i bagagli su  sei fuoristrada guidati da esperti autisti, ci siamo spostati verso El Alamein,  inoltrandoci nel deserto. Prima sosta a Qaret el Abd per prendere visione del  campo inglese utilizzato dagli italiani per l’ospedale sotterraneo; è il primo  incontro con la zona di guerra e i ragazzi setacciano il terreno in cerca di  reperti. Naturalmente sono rimasti solo pochi pezzi arrugginiti di scatolette e  di filo spinato, ma qualcuno trova qualche scheggia e Luca anche un proiettile  di mitragliatrice. Molto presenti, invece, le folgoriti, agglomerati di silice  fusa dai fulmini, di forma pressoché cilindrica e di queste raccogliamo vari  esemplari. Lasciamo la zona e ci portiamo in pieno deserto, dove allestiamo il  nostro primo campo. Le nostre guide dispongono le macchine a U e fissano dei  teli tutt’attorno, per creare una specie di sala da pranzo a cielo aperto. Nel  frattempo, noi e i ragazzi provvediamo a montare le piccole tende che ci  accoglieranno per la notte. La cena, a base di minestra di verdure e pollo  arrostito sulla brace (la legna era stata portata su una macchina), innaffiata  con acqua minerale e té, risulta molto suggestiva: sono tutti accoccolati sulla  sabbia tiepida, qualcuno a piedi nudi, attorno a due bassi tavoli approntati  appositamente. Io, con le giunture un poco arrugginite, sto appollaiato su uno  sgabello a tre piedi che sprofonda nella sabbia sotto il mio peso, ma almeno  riesco a stare in equilibrio e un po’ comodo. Con mia grande delusione, come  frutta ci servono delle piccole banane molto dolci, anziché i famosi datteri di  cui avevo letto nei resoconti di Moretti, e sarà lo stesso anche nei giorni  successivi; imparo così che non è la loro stagione e che da queste parti, vista  la scarsa possibilità di conservare i cibi, si consumano di preferenza frutta e  ortaggi di stagione, per altro molto abbondanti negli orti attorno alle città.   La notte è scesa bruscamente e il cielo si rivela in  tutta la sua magnificenza; sembra di poter toccare le stelle con le dita, tanto  sembrano vicine. Alla fine ci ritiriamo nelle nostre tendine e, sistemati nei  sacchi a pelo, ci addormentiamo sui materassini stesi sulla sabbia, o meglio,  tentiamo di farlo, ma il chiacchiericcio dei ragazzi dura per un pezzo, ed è  normale, data la situazione così particolare. La sveglia ufficiale mi coglie  tra le dune per espletare faccende molto personali che non posso lasciare ad  altri, in compagnia di alcuni scarabei stercorari in attesa della materia prima  per lo loro pallottole-culla delle uova e di molte chioccioline bianche appese  ai rametti di alcuni cespuglietti spelacchiati. Seppellisco il mio prodotto, mi  rassetto sveltamente e mi affretto a raggiungere gli altri. Smonto la mia  tendina e preparo i bagagli intanto che le guide preparano la colazione a base  di té, uova sode, fette di pane, marmellata e miele, il tutto spolverato in  pochi minuti dai famelici componenti la brigata. La nuova giornata nel deserto  ci porta a visitare la zona tenuta senza arretrare dalla Folgore a Qaret  Himeimat, ribattezzata dai folgorini milanesi “Caret dei bei matt”. Lasciate le  macchine sulla pista, risaliamo con cautela il costone della collinetta più  bassa, sulla quale troviamo le tracce, riportate alla luce da precedenti  spedizioni, di postazioni militari. È forte in me la commozione nel calpestare  sabbie e rocce che portano ancora il segno degli avvenimenti di sessantotto  anni fa; par quasi di sentire i sussurri dei combattenti, le loro risate  soffocate nelle lunghe attese sotto il sole, le imprecazioni e gli schiocchi  dei colpi d’arma da fuoco durante i combattimenti. Se grande è l’impressione  per quanto hanno fatto i folgorini, altrettanto forte è in me la pena e la comprensione  per i sacrifici affrontati dagli attaccanti, stesi sulla sabbia o dietro i  carri dall’acciaio arroventato dal sole del deserto o dalla benzina incendiata  delle molotov, sottoposti al tiro preciso e micidiale dei nostri. È la stessa  pena provata tra la sterminata successione di croci del cimitero militare  alleato e poi nel sacrario tedesco.   Non ho parole, invece, per descrivere sentimenti e  impressioni provate al Sacrario italiano, ma ci provo lo stesso. Dopo  l’ingresso vicino alla strada litoranea Alessandria-Tobruk, un largo e  lunghissimo viale sterrato ci avvicina al Sacrario che si erge possente in  lontananza. A fiancheggiare il viale, tra palme ora frondose, una serie di  cippi recanti incisi i nomi dei reparti che hanno lasciato tante vite in quelle  terre. Mentre percorriamo il lungo tratto soleggiato, è automatico pensare alla  guerra nel deserto e ai sacrifici sopportati dai combattenti. Porto con me il  Vessillo della Sezione Alpini di Brescia che il Presidente Forlani mi ha  affidato, a significare la continuità d’ideali che ci lega ai nostri padri,  qualunque divisa portassero e benché non ci fossero reparti alpini a El  Alamein, bastò la presenza al comando del 31° Btg. Guastatori del Maggiore  Paolo Caccia Dominioni Sillavengo, con il suo Cappello alpino a lasciare il  segno della penna. Infatti, un’erma di bronzo su un piedistallo di marmo lo  rappresenta con l’immancabile cappello alpino, e ricorda ai visitatori l’opera  durata anni per la raccolta dei resti dei caduti e l’erezione del Sacrario in  loro imperitura memoria. È appunto qui, mentre gli altri accompagnatori e  studenti passano in rassegna le lapidi con i nomi dei caduti o con il semplice  scritto “ n. xxx spoglie di caduti ignoti”, che mi ha colto sugli attenti e con  il vessillo il fotografo alemanno. Pensieri turbinano nella mia mente, mentre  lentamente i ragazzi sfilano e lasciano i loro scritti sul libro della memoria  posato su un leggio di pietra accanto alla bandiera Italiana. Il luogo è tenuto  in ordine e pulitissimo, come gli altri sacrari, segno di grande rispetto per  chi ha perso la vita nell’adempimento del proprio dovere. Ci rechiamo poi al  monumento di Quota 33, dove posiamo per l’ennesima fotografia. Attraversando  una spianata pietrosa, mi porto con Luca a rendere onore ai caduti della  Folgore e della Divisione Brescia ricordati dai cippi lungo il viale d’accesso. (Grazie Luca per essere stato con me in  quei momenti; non abbiamo scambiato verbo, ma credo che le nostre anime in quei  pochi minuti si siano fuse in una sola).   Prima di partire, ho voluto rendere omaggio al piccolo cimitero dove  riposano le spoglie degli Ascari Libici che con i nostri soldati hanno  combattuto nel deserto, all’ombra della piccola moschea che li ricorda con una  lapide dai tanti nomi arabi.   Naturalmente il nostro peregrinare nel deserto, oltre  a momenti di commozione, ci ha regalato anche ore di sensazioni straordinarie  di libertà, di aria pulita, di senso dell’infinito, con quella sabbia che ci  circondava a trecentosessanta gradi fino all’orizzonte, appena accennato dal  lieve rilievo di qualche duna. Ho anche pregato, nel deserto, come fossi in un’immensa  cattedrale, quasi al cospetto del Creatore e, anziché sentirmi piccolo piccolo  di fronte a tanto spazio, mi sono integrato in esso quasi a farne parte. Il camminare  sulla sabbia o sulle pietraie infinite, dà una strana sensazione di forza;  siamo piccoli esseri che pure dominano il mondo. I rilevati degli scavi delle  pipe-line che s’intersecano ci ricordano la responsabilità che abbiamo nel  gestire quanto la natura ci dona, e quanto minimo sia il nostro incidere su di  essa, a patto di saperla rispettare, ma quanto invece possiamo diventare  distruttori per cupidigia o stupidità. 
 Giovanni Prestini(Ten. 7° Rgt. Alpini, ormai a riposo)
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   Il Sacrario di El Alamein (link al sito dei Carabinieri del Tuscania) |