Cappello Alpino  
        di Carlo Gobbi  
        
       «Sul cappello,  sul cappello che noi portiamo...». Ti senti elettrizzato quando ascolti queste  note. E ti rivedi a Lecce, in mezzo a un gruppo di ragazzi sui 20 anni in  divisa da AUC, cantare a voce spiegata quello che è l’inno degli Alpini dopo il  Trentatrè. Quanto entusiasmo per quel cappello con la penna nera. E quanto  orgoglio quando fosti intruppato su quella tradotta di terza classe, panche in  legno, spazio zero, armi, bagagli e vettovaglie (procurate da noi), fra quei  fortunati che andavano lassù, ad Aosta, verso la gloria, per indossare un  cappello che quelli della «buffa» non potranno mai portare. 
         
         Ma poi, quando te lo misero in mano, quel buffo  anacronistico copricapo con la penna sbilenca, che non assomigliava per niente  a quei cappelli delle leggende, degli ufficiali Alpini lassù, sui monti, ci  rimanesti pure male. Ma cos’è questo coso? I più navigati sentenziavano che era  il cappello storico delle prime truppe alpine, nell’Ottocento, con le tese a  barchetta, quasi una bombetta. Che assomigliava tanto a quel ridicolo  cappelletto che pareva proprio una bombetta, con una pennetta piccola così, che  calzava con dignità l’austero tenente colonnello Villa, comandante del  battaglione. 
   
   Mah, se lo porta lui, quel buffo cappelletto, allora anche  noi... Però ti rimase il dubbio. Che aumentò all’ingresso della nostra vita di  AUC della Prima compagnia, 32° Corso 1963, del capitano Ettore Riccio. Quello  sì che era un cappello. Con la tesa rovesciata tutta a destra, ti ricordava il  cappellaccio di Italo Balbo, il quadrumviro caduto in Libia, che era stato  ufficiale degli Alpini nella prima guerra. E quello sì che era un ufficiale  degli Alpini, con cipiglio fiero, barba e baffi, voce tonante, aspetto  dirompente, che ti guardava dritto negli occhi e ti infiammava. E quel cappello  poi coltivava una leggenda: il capitano era reduce di guerra, si diceva, aveva  fatto la Russia, era stato nella Julia. E solo quelli della Julia che erano  stati in guerra, il cappello lo potevano portare così, con quella tesa guascona  alla Balbo. E allora, anch’io, quando sarò ufficiale, prenderò il mio cappello  e gli tirerò la tesa bassa bassa sulla destra. Magari, anche senza barba e  baffi, la mia figura la farò pure. 
   
   Era ben brutto e ridicolo, quel mio primo, unico  cappello alpino. Con quella sparuta penna di gallina, attaccata alla nappina,  avrebbe mai resistito a venti impetuosi delle vette? Però me lo rimiravo e  rigiravo, abbagliato da quell’aquila dorata, su nel centro. Tutto quell’oro ti  affascinava, ti restituiva quell’orgoglio sperduto da quel buffo cappello  demodè. Ma non sapevi che in fondo, quel cappello di cui un pò ti vergognavi, e  l’impressione era che lo fosse anche per altri nella camerata, nel plotone, non  l’avresti portato tanto sulla zucca. 
   
   Eh già, il cappello alpino lo si porta in parata, quando  sei di guardia, in libera uscita o in licenza. Parate, poche, una sola  occasione. Guardie sì, ma chi ti vede? Solo quando sei statua in garitta.  Libera uscita? Sì, proibita, tre volte e pò pù. Dopo pochi giorni, stavi  consegnato per settimane, hai fatto il corso a handicap, inseguivi le tue  consegne, che si allungavano come un millepiedi. E la domenica, qualcuno veniva  a chiederti: "posso mettere il tuo nome al posto del mio, tanto ci sei già  in tabella". E tu, gentile come sempre, venivi chiamato 3-4 volte.  Licenza, una sola. Ancora te la ricordi quando varcasti il cortile della  vecchia Gazzetta di via Galilei andando a trovare i colleghi, di passaggio da  Milano prima di rientrare ad Aosta. Quanto ti sentisti alpino e con quale  orgoglio portasti quel buffo cappello stile Ottocento, da tutti, giornalisti,  fattorini, impiegati, tipografi, ammirato, con invidia. 
   
   Ma ad Aosta avevi scoperto un altro cappello, meglio,  berretto. Quello da fatica, o norvegese, detto anche «da stupido» chissà  perchè, tanto lo portavi sempre. In marcia. E nelle esercitazioni di plotone o  compagnia. Quello sì fu il tuo fedele compagno di una calda estate in Val  d’Aosta. Quando la tesa, ingobbito in avanti sotto il peso del carico, di  Alpini con la schiena dritta ghe n’è minga, per un anno guidai una 500 e mi  sentivo tanto alpino, a ogni passo, ti faceva cadere una goccia del tuo sudore,  davanti allo scarpone, tac, tac, tac-tac, per ore. Veniva disprezzato, odiato,  maltrattato, preso a calci, però ce l’avevi in testa quando il sole ti  trapanava il cranio lasciandoti le braccia bianche di sale, disidratato, o la  pioggia ti bersagliava implacabile mandandoti a mollo fino alla punta delle  calze. E alla fine, sarà lui, il povero berretto, derelitto, inelegante,  fradicio del tuo sudore da fatica di mesi, ad accompagnarti nella vita. Con un  posto di riguardo, nella tua camera, a Modena e poi a Milano. Perchè questo  berretto testimoniava i ricordi del periodo più duro, più intenso e perciò più  straordinario della tua vita. Ma anche per un altro motivo che ora vi  spieghiamo. 
   
   Io, il cappello alpino non ce l’ho più. Non sono  diventato ufficiale. La sera prima degli esami, smontato di guardia, sarebbe  stata l’ultima, non lo sapevo, venni mandato a casa. Con il mio bravo cappello,  così poco usato, in testa. Al ritorno in caserma, alla Chiarle per l’ultima  volta, consegnai il cappello, gli venne tolto il fregio dorato, sostituito  dall’aquila degli Alpini semplici. Una porzione del mio cuore se ne andò con  quel pezzetto così importante del mio orgoglio e dei miei sogni giovanili.  Strappatomi di dosso, come fossi stato degradato una seconda volta. Anni prima,  accusai un’umiliazione simile. Ero stato bocciato a scuola, all’iscrizione per  il nuovo anno, il bidello scrisse: «ripetente». Il timbro mi risuona ancora.  Durissimo. Chi l’ha provato, può crederlo. Rimasi impassibile. Quell’anno,  recuperai l’anno perduto, il capriccio di un’insegnante zitellona, mi accusò di  passeggiare sotto le finestre di casa sua, manco sapevo dove abitasse, con la  ragazzina, il primo amore dei 18 anni, per farle dispetto, ma pensa te. Allora  mi fu possibile, mi presi la rivincita, recuperai l’anno, terminai la scuola  contemporaneamente ai miei vecchi compagni, tiè.  
  Ma alla Chiarle, questo non fu possibile. Magari lo  fosse stato. Ripetere? Non consentito dal regolamento. Occasione unica. Chi è  dentro, è dentro, chi è fuori, peggio per lui. Lì fosti bollato per la vita. Condannato  senza appello. Un punto amarissimo, senza ritorno. Così, a Roma, al Reggimento  Granatieri, un ufficiale, romano, con barbetta, il nome mai volli ricordarlo,  mi chiese il cappello alpino. Collezionava cappelli militari. E io glielo  consegnai. Subito. E lui meravigliato: «Ma come, pensavo che gli Alpini non  dessero mai via il cappello?». Già, ma io non fui più alpino. E quel cappello,  orbato del suo fregio, quello vero, non lo sentivo più il mio cappello.  
       Oggi, mi  sono abituato. Quando mi chiedono: «Dov’è il tuo cappello», rispondo «Non ce  l’ho». E mi pesa, accidenti se mi pesa. Quando ti trovi con questi fantastici  ragazzi che ricordano la Smalp, ti senti nudo. Non vuoi fingere. E loro ti  hanno accettato così. Ma il berretto, da stupido finchè volete, quello l’ho  conservato. Tutta la vita, gelosamente, con quel suo fregio dorato, che mi  ricorda un bel sogno della giovinezza, spezzato una brutta sera d’estate. Era  d'agosto. Quello fu il mio 8 settembre.  
       
       Carlo Gobbi ,   ha frequentato il 32° corso AUC ed è stato pallavolista 
di ottimo livello. Giornalista professionista dal 1973, è redattore della "Gazzetta 
dello Sport", testata per la quale scrive di pallavolo e rugby. 
       
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