AOSTA
di Mainardo Benardelli

 

Corrado Ghezzi era un brigante. Sì, sì, un vero brigante, di quelli che giravano con la lupara ed il fiasco di vino appeso alla cintura. Ogni tanto derubava un passante, oppure violentava una suora, o ancora meglio partecipava ad interminabili staff-meetings in cui si delineavano nuove strategie per rapinare la Cooperativa degli Artigiani Aostani. Talvolta invece si iscriveva a corsi di aggiornamento sulle nuove tecniche di comunicazione per operatori del settore “affari poco puliti”.
Fece la fine di tutti i briganti: fu impiccato. Adesso che è diventato un fantasma, abita l’albero a cui lo appesero. Fa frusciare le foglie senza vento, scricchiolare sinistramente i rami, e durante i temporali scuote il tronco come se fosse una canna. Rimpiange i tempi dell’azione, delle marce forzate nella bella Valle d’Aosta e sogna guerrieri indomiti in lotta per ideali immemori, per la Patria. Gli angeli lo vengono a trovare: « Ti sei pentito Corrado? » « Sì, sì » risponde lui, non troppo convinto. Sospira, pensando che avrebbe dovuto seguire il consiglio del suo istruttore ad uno di quegli utili corsi di aggiornamento, e aderire ad un partito, sì, un partito teso a moralizzare il Paese, a ripristinare i valori tradizionali,  ad un brigantaggio uguale per tutti. Quello che è fatto è fatto, pensa, ed ha tempo per pensare, in fondo è fortunato, immaginatevi se avesse dovuto ancora lavorare anni e anni per raggiungere i contributi utili ai fini pensionistici. Si, decisamente è meglio così.

*

Carmelo Caratozzolo, che ha da poco commesso un selvaggio delitto meridionale, è in viaggio verso il Profondo Nord. È piccolo e minuto, e fuma incessantemente: ha un occhio di vetro ed un curioso accento. Veste una giacca sgargiante, non priva di una qualche eleganza, ma un po’ demodè. Ha l’aria simpatica, e non guarda mai negli occhi: che sia un retaggio genetico di secoli di servilismo e paura?
Di fronte a lui, sul treno, siede Romualdo, che sta raccontando una storia d’amore. Dice Romualdo:

« Quando conobbi Marcello non aveva più di vent’anni. Io lavoravo nella discarica per rifiuti nucleari del suo paese. Un paese povero e cadente, che univa la miseria degenerata della montagna allo squallore del Meridione povero e cadente. Peraltro la discarica aveva portato un certo benessere,  e dopo tanti secoli i valligiani si erano permessi il lusso di una cappella in lamiera stagna (prima, per andare alle funzioni religiose, si percorrevano chilometri), con uno stravagante campanile che all’uopo poteva trasformarsi in ciminiera. Potenza della tecnologia.
« Noi operai » continua, « venivamo tutti da fuori, per assistere alla Messa. Ci si pavoneggiava con le nostre tute color giallo. La discarica lavorava sempre, anche di domenica. La turnazione portava scompiglio nella vita del paese, facendo confondere il giorno con la notte. Le ragazze del paese si perdevano una dopo l’altra. Molto belle non erano mai state, ma ultimamente giravano solo certi scorfani, dal momento che quelle vagamente decenti emigravano in capitale, o si sposavano, o talvolta si suicidavano, e per noi derelitti rimanevano certi mostriciattoli, che solo a vederli passava la voglia. Per quello cambiai gusti e decisi che, in mancanza di meglio, un bel ragazzo poteva andare bene. Andò talmente bene, che mi ci affezionai: non si cambia squadra vincente, dicono dalle mie parti. Anzi, ogni volta che penso a quando montavo di guardia con il picchetto d’onore, laggiù ad Aosta, quello che insomma si chiamava “la Guardia bella”, con tutto quel ben di Dio che ancora non conoscevo… Insomma, la mia tuta gialla mi piaceva, la paga era dignitosa e di tanto in tanto qualche guaglione si trovava.
« Pur considerando i danni collaterali, quali fame e peste, al paese si viveva bene. Anche se le cose non erano sempre chiare nella nostra discarica: i proprietari non pensarono mai a chiudere, al contrario, venivano camion e camion di gente nuova, curdi, libici, srilankesi, e mi sembra che ora tutti possano anche votare alle amministrative, anche se, francamente, quella gente lì non aveva troppo rispetto per la pulizia delle proprie tute, anzi…. 
« Ogni tanto gli operai cadevano fulminati, ma il Governo continuava a smentire, smentiva tutto, la discarica, le agitazioni degli operai, perfino l’esistenza del paese. Infatti a volte ci si interrogava sulla nostra identità, ma bastava andare al bordello e vedere Marcello che ci offriva un bel vin brulè che tutto passava….. Tout s’en va, dicono i cugini d’Oltralpe, è una santa verità’.
« Chi è Marcello? Marcello e sua madre avevano messo su un bordello per gay. Si sa come vanno certe cose. Poche ragazze, per lo più bruttine, centinaia di operai appassionati, anche i compagni cominciavano a cambiare gusti, come a naja si cambia di scarponi, è una cosa logica se ci si pensa, ma viene naturale, in realtà, con il tempo e l’abitudine. Perché nessuno ci pensa, ma un giorno succede: è come la cartolina di richiamo per il militare, nessuno pensa di fare la guerra, ma fra un bombardamento e l’altro, ci scappa il morto, oggi l’Irak domani il Kashmir, chissà se un giorno dovremo combattere nelle valli del Natisone, come i nostri nonni contro i crucchi… Insomma, quel bordello fu la scoperta dell’acqua calda, dilapidavamo i nostri sudati risparmi in bevute e bei ragazzi, con discorsi del genere: “Anche la tragedia tra noi prende il colore della vacuità, il destino dell’umanità affonda nel nulla, il nulla che tutto ingoia e trascina, con il suo fiacco ondeggiare, le grida che si trasformano in lamenti, la disperazione in fastidio, tutto impallidisce prima di scomparire, i rimpianti sono falsi, la disperazione un capriccio”.
« Così parlò (oops, parlava) Marcello, con i clienti. E tutti che tornavano da lui per sentir nuovi aforismi: “Immaturità della vita, futilità della vecchiaia e della sua pretesa saggezza, vergognosa sopportazione dei nostri multiformi ruoli di pupazzo”. “Quando ero alla SMALP! Ad Aosta sì che c’erano veri uomini, mica come qui, quattro terroni piagnucolosi! E Pollein, vi ho già raccontato di Pollein?”
« Me ne innamorai pazzamente e decisi di sposarlo. Bisognava recarsi ad Amsterdam, ma non avevo soldi. E poi avevo un rivale: Corrado Ghezzi, professione brigante, segni particolari nessuno, a parte forse una certa erre strascicata, erre mozza che ai miei tempi faceva tanto chic.
« Corrado era stato domestico in gioventù: il suo padrone, quando tutti ormai avevano ripreso a temere il demonio, riteneva ancora alla moda far professione di ateismo, leggere Helvétius e stupire dell’uomo meccanico. Di queste storie aveva nutrito il suo servo: che la sensibilità fisica produce tutte le nostre idee, che ogni cosa si riduce al sentire, che la collettività è determinata nei suoi giudizi solo dal proprio interesse e chiama oneste, grandi ed eroiche solo le azioni utili nei suoi riguardi. A forza di ripetergli che l’egoismo della società e niente altro facevano di lui un servo, Corrado diventò brigante. Così diceva lui. Secondo me erano la sua pigrizia e il suo gusto per il sangue.
« Corrado seguiva un materialismo fumoso, che si adattava alla sua voglia di ragionare per frasi fatte, senza sforzo: “Ognuno ha per maestri i propri amici, la gente di cui è circondato, le sue letture, l’educazione, le circostanze in cui vive e infine il caso, un’infinità di avvenimenti di cui per nostra ignoranza non siamo in grado di scorgere la concatenazione e le cause”.
« Per caso Corrado si innamorò di Marcello. E lo voleva sposare. Marcello naturalmente non amava né lui né me; credo non fosse neppure in grado di distinguerci. Perciò ci presentammo alla madre, perché scegliesse il più degno.
“Ragazzi, Marcello ed io non siamo ricchi. Voi lo volete sposare senza dare garanzie per il futuro; voi due spiantati scansafatiche, un ladro di polli e un operaio lazzarone, cosa avete da offrire?”. La madre, dopo avere girato in lungo ed in largo l’Italia, ed avere aperto un bordello per gay in ogni luogo in cui aveva soggiornato, era diventata ricchissima, anche se un po’ taccagna. Fu naturale che ci cacciasse di casa senza nemmeno offrirci il tè.
« Decidemmo di rapinare la discarica nel giorno di paga agli operai. Ricchi sfondati, avremmo sposato Marcello entrambi, con un rito esotico che si celebrava nello Spaarndammer o nello Zaann Schade di Amsterdam, o in tutti e due, perché no? In fondo, ci si sposa solo una volta nella vita. O non mi dite che siete favorevoli al divorzio?
« Comunque, riprendiamo il discorso. Il contabile e gli schei venivano ogni mese dalla città su un furgoncino, scortati da un nero poderoso, pare venisse dalla Nubia (ma no, adesso si chiama Sudan), molto feroce anche perché era sempre in attesa del paventato foglio di espulsione, altro che voto amministrativo!
«Avremmo preparato un’imboscata e fatto saltare tutto con il tritolo. La sera prima, Corrado ed io eravamo occupati con la miscela esplosiva in una cantina buia e fredda, illuminati da una lampada che trasformava i nostri volti in maschere da assassini (mi sembra d’aver visto maschere del genere quando viaggiavo facendo autostop in Uganda). “L’uomo è una macchina, i suoi nervi l’insieme dei fili che lo guidano in sintonia con il grande orologio della natura; se un esperto artigiano sapesse leggerne i meccanismi, allora la storia si aprirebbe alla conoscenza, il destino verrebbe superato e spiegato. È l’incertezza che fa nascere il crimine e la superstizione; con la conoscenza si instaurerebbe l’età dell’oro, perché la natura è giusta, purché la si riesca a capire”.
« Ci lasciammo come si lasciano i cospiratori prima dell’azione. E mentre io dormivo sognando la gloria, Corrado si ubriacava in pubblico: fuori di sé urlava lungo la via principale del paese i nostri piani. Anche gli operai che affollavano la strada erano ubriachi: perciò presero tutto sul serio. Qualcuno persino credette che la rapina fosse già cosa fatta, la cassa della discarica rubata e la paga svanita. Picchiarono Corrado selvaggiamente; lo unsero di grasso per dargli fuoco; ma Corrado riuscì a fuggire. Io mi svegliai prima che abbattessero la porta della stanza, saltai giù dalla finestra e via, nel buio della notte.
« Ci ritrovammo nel bosco, era buio; Corrado piangeva e cercava di togliersi il grasso di dosso. Ancora intossicato dal vino, balbettava raccontando delle forme di governo future, della repubblica dove l’amore libero sarebbe stato obbligatorio e il denaro bandito... »

Ad un certo punto Carmelo Caratozzolo, che per tutto quel tempo aveva ascoltato il suo compagno di viaggio senza battere ciglio, lo costrinse ad interrompere la narrazione:
« Non è vero, non è vero, è tutto falso. Innanzitutto, amico mio, sappi che io sono un feroce assassino » così dice Carmelo, sicuro di far bella figura « e che con queste mani ho ucciso il bel Marcello che tu amavi ».
Romualdo, per nulla intimorito da cotanta premessa, riprese il suo racconto.

« Corrado, tornato allo stato di natura, si nutre di radici e bacche nel bosco, corre nudo ululando e fa altre cose, noiose a ripetersi, come ad esempio: dormire in qualche calda buca nel terreno coperto di foglie, fare amicizia coi millepiedi, reggere il sole con le mani perché non tramonti, leggere Milton a casa di suo cugino che lo ospita perché sarà pure un parente, ma quel che è troppo è troppo, non si lava mai, puzza come la Bestia dell’Apocalisse.
“Corrado, da qui bisogna che te ne vai”, gli dice il cugino.
“Io non mi muovo”.
“Corrado...”
“Attento tu, piuttosto”  e lanciava sguardi da cannibale sul nipotino. “Se mi denunci, lo violento e poi lo mangio, sembra così tenero…”.
« Intanto al paese la peste infuriava. Si portò via anche il negro, che fu sepolto nella calce viva. Ma nessuno pensò a togliergli dal collo le chiavi della cassa di vetro, e senza chiavi la cassa non si riusciva ad aprire. Dall’interno il contabile faceva mille smorfie, come dire “Quando esco ghe pensi mi”, gli operai lo guardavano tristi e non sapevano cosa fare. Finalmente si andò a cercare Corrado, perché usasse il tritolo.
« Vennero in corteo, con il sindaco in testa. Corrado appollaiato su un ramo, i notabili inginocchiati sotto l’albero, la scena fu commovente e pittoresca.
“Io non vi amo, cittadini. Ho affrontato mille pericoli. Ho varcato i monti con i miei Alpini, ho guadato ruscelli, percorso chilometri e chilometri, ho dormito nelle stalle, ho fatto la guardia per ore ed ore, mi sono nutrito di bacche e neve. E per cosa? Vi ho amato e mi avete respinto. Mi avete dato queste stellette, ed ora sono ridotto a belva solitaria a causa della vostra crudeltà. Ingenuo, timido e buono, un tempo. Alpino, vero Alpino. Ora corrotto. Così trasformano un uomo la derisione e la povertà. Il denaro, solo il denaro e la nascita fanno il valore dell’uomo. Io vi ho teso la mano, voi l’avete respinta: brigante, ecco il marchio infamante. Ma so essere grande: non vi amo ma vi perdono. Dimentico tutto: le ore di anticamera, l’indifferenza, la cattiveria. Ma come potrò dimenticare la solitudine? Io credevo nella virtù, cittadini”.
« Chiese in ricompensa di sposare Marcello.
« Riportato in trionfo in paese, fra inni di lode e cori alpini che inneggiavano a Madonne nei monti e testamenti dei Capitani, Corrado sistemò l’esplosivo. Il contabile da dentro la cassa gridava “Aiuto, aiuto!”, ma il vetro soffocava ogni rumore. Corrado accese la miccia e il paese fu polverizzato. Qualcuno pensò che stavolta i rifiuti tossici avevano ecceduto il livello consentito, ma solo i pochi che, diffidando di tutti questi inneggiamenti agli Alpini e nutrendo serie perplessità su Corrado, si erano rifugiati in cantina, si salvarono. Subito cercarono Corrado per impiccarlo. »

Carmelo intervenne: 
 « Io l’ho ucciso, con queste mani. Guarda »  E si toglie i guanti per mostrare le dita a Romualdo. Qualcuno gli aveva strappato le unghie, unghie che un tempo erano uno splendore, e che lui si tingeva con molta grazia di un bel pervinca.
Romualdo gli chiese:
« Chi e’ stato? ».
Carmelo rispose:

« È stato Marcello, il tuo adorato Marcello. Egli era allora prigioniero del mago Frank il Genisott in un palazzo di cristallo, nella valle del fuoco. Io lo raggiunsi e lo pregai, perché mi permettesse di liberarlo. Lui non voleva, mal sopportava di dovere ripagare il debito. Si sa, noi Meridionali abbiamo uno spiccato senso dell’onore e degli obblighi. Allora io gli dissi che dopo averlo liberato mi sarei ucciso. Accettò la mia offerta e disse: 
“Lontano, a molte ore da qui, giace un paese desolato e deserto; in mezzo al deserto cresce un’oasi di sette ulivi; in mezzo agli ulivi troverai tre cofani d’oro uno sull’altro; sotto l’ultimo cofano, una gabbia con un varano viola; dalla vita del varano dipende la vita del mago. Uccidi il varano e il mago morirà, ed io sarò libero: vai”. E io partii e attraversai il deserto malgrado i miraggi e i mostri, che mi tiravano per la manica e gridavano:
“Rinuncia, non ce farai mai, superare un corso Allievi Ufficiali alla SMALP è molto più facile che arrivare dal mago Frank!”. Ma finalmente arrivai al cerchio degli ulivi. Il negro capo dei nomadi volle sfidarmi a duello: ci battemmo per sette ore senza interruzioni, all’arma bianca, cioè recitando canzoni di Mariano Apicella. Alla fine, esaurita la mia scorta di piagnucolamenti in dialetto napoletano e stanco di trovarmi così lontano da casa, gli mozzai il capo e aprii il terzo cofano, quello più prezioso. Presi il varano e gli tirai il collo; in quel momento il mago lanciò un gran grido (lo sentii anch’io nel deserto) e cadde morto. Ritornai al palazzo di cristallo e mi inginocchiai di fronte a Marcello, con le mani in croce sul petto, reclinai il capo e tacqui ».

Romualdo lo interruppe: « E poi? »
Carmelo, accendendosi una sigaretta, riprese: « Il mago non era morto per niente, Marcello mi aveva preso in giro”. »
E Romualdo, interessato: « Allora il mago ti strappo’ le unghie? »
Carmelo, sempre fumante: « No, fu Marcello »
Romualdo, ormai agitato: « E tu lo uccidesti? »
Carmelo, spegnendo il mozzicone all’interno della fodera del berretto da fante del vicino: « No, io riuscii appena a scappare; gli promisi però che l’avrei ucciso. »
Romualdo intanto aveva ripreso il filo del suo racconto.

« Dopo l’esplosione, i superstiti presero Corrado e lo condussero sotto l’albero che doveva servire da forca. Era un albero antico, consacrato a un marabutto. Il marabutto passò qualche tempo al paese, anni fa. Rubava, così si decise di allontanarlo. Prima di partire, il marabutto maledisse tutti gli abitanti, uno per uno, predicendo la fine del paese nel fuoco. I paesani superstiziosi gli dedicarono un albero, sperando di calmarlo. Il marabutto andò via e la leggenda vuole che giù in città sia diventato ricchissimo e che la discarica al paese l’abbia fatta costruire lui, per dispetto e con l’aiuto di qualche papavero che dimora nei palazzi romani. »

Romualdo vorrebbe continuare, mentre Carmelo medita a come controbattere, raccontare nuove avventure, fare piangere gli astanti raccontando delle follie che si potrebbero fare per il bel Marcello, ma sono entrambi stanchi, dopo 15 ore di viaggio, che provano il fisico di chiunque. Bisogna tornare alla normalità, alla vita quotidiana.
« Ora basta, bisogna crescere, » dice la mamma, » bisogna farsi una posizione, studiare, laurearsi, sposarsi, è ora di finirla con tutte queste fantasie, ormai il militare l’hai finito, no? E con onore, tutti sanno che la Scuola Militare Alpina è tosta, ma adesso basta!” »
Marcello guarda la madre e pensa: “Fine”.
Sì, fine.

 

Mainardo Benardelli - ha frequentato il 113° corso AUC. Nato a Gorizia nel 1964, laureato in Scienze Politiche, è diplomatico di carriera dal 1991. Dopo avere prestato servizio nelle nostre Ambasciate in Uganda, Paesi Bassi e Sri Lanka, ed al Ministero degli Affari Esteri nel settore delle relazioni culturali, della cooperazione allo sviluppo e della cifra e telecomunicazioni, è Vice Ambasciatore in Irak dal 2004. Ha pubblicato un libro sotto pseudonimo (Umwantisi, La guerra civile in Rwanda, Milano, Franco Angeli, 1997) ed una trentina di articoli di politica estera, pubblicati su “Affari Sociali Internazionali”, “Affari Esteri”, “La Patrie dal Friul” e “Limes”. Ha partecipato come autore all’antologia “In punta di Vibram”.

 

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