Alpini-Carri
di Paolo Scatarzi

 

Odore di campi dai fianchi della Pontebbana, al mattino. Sentore di erba, che infonde allegria. Quasi struggente. Una fragranza acidula e sottile. La intercetto a folate, nell’aria del movimento. Emana dal taglio, dal fermento di erba recisa, morente nel proprio umore. Inumidisce il respiro. S’intervalla allo scarico, esausto, del motore, che sottolinea i miei pensieri. Il giro di pistoni è già stato, se avverti puzza di carbonio, finito; quello della biologia ricomincia, invece, proprio da lì, da quella fragranza di sfalcio. Tutt’altra perfezione.
La AR76 corre in testa alla fila, con il suo arco di antenna importante, per la Rv4. Le squadre della Compagnia Controcarri della Julia mi seguono ordinate, a fari accesi, ostentando i 106. Poco traffico, nel presto di agosto, e la luce di un sole garbato, che acquarella i colori.
Siamo vicini a Codroipo. Il paesaggio è nuovo per i nostri occhi, abituati alle ombre dei monti, al mattino. Qui lo sguardo può correre in piana. Ha poche barriere. Vola, come un cane da caccia libero improvvisamente dalla catena: esplode la corsa, si ferma di scatto, ritorna ad annusare, riparte; confuso dall’autonomia. E c’è tanta luce. Bello viaggiare a macchine aperte, d’estate.
Oltrepassato un lungo ponte piatto, a sostegni di pietra, Tasson, il conduttore, mormora: “È qui…” e, rallentando, s’infila in uno stradello sassoso, a sinistra, tra macchie di vegetazione.  Balliamo sulle buche per qualche minuto, immersi nel verde che a volte ci graffia le braccia. Quando sbuchiamo all’aperto, siamo sul greto disteso del Tagliamento: ghiaia carsica a onde, quasi a perdita d’occhio. Sullo sfondo la lunghezza azzurrina, ritmata, del ponte di prima.
Adunata.

Oggi si corre. Siamo qui per provare la nostra natura, l’interdizione di valle ai cingoli armati: Cooperazione Alpini-Carri, così si chiama. Aspettiamo il rombo dei Lanceri del Modena e vedremo di misurare la nostra perizia alla loro.
Abbiamo studiato le cose fino alla nausea. I nostri nomi in codice; le chiamate; i movimenti a sbalzi pensati; le coperture; chi prima, chi dopo, chi dove, chi forse, chi se; i tempi delle “stima-distanza”, le castagnole di polvere pirica da fare tuonare in nome del 106; i silenzi-radio; i segnali; l’inizio; la fine. Proviamo le comunicazioni con chiamate e risposte. Poi, tra poco, silenzio assoluto. Solo dopo l’avvistamento, e dopo il primo colpo d’incontro, poche chiare parole e solo se serve. Che tutto è già noto, qui, sulla carta. Comandanti di squadra venite a ripetere.
Basin, Cusetto, Maronato, Gregis, Ridussi, Donutti, Merlini, Varo e Vuerich, caporalmaggiori, si fanno vicini. Attenzione ai comandi che date; attenzione ai tempi. Anzi, rimettiamo gli orologi. 
Guardo il polso, ma il mio orologio non c’è. Chiedo a Tasson di prestarmi il suo. Ok: da questo momento sono le 7:05, per tutti.

Intermezzo. Lanceri e lancette.
Ieri, in mattinata, ho avuto un incontro coi Lanceri, durante un loro sopralluogo. Da solo. Convenevoli di rito e accordi da prendere per l’esercitazione comune. E sorpresa finale.
In qualità di comandante della difesa, se vuole, Tenente, può farsi un giretto su un Leopard, per avere un’idea. Che dice? Le affido il comando della seconda macchina: lì sopra – indicando la belva metallica - fuori in torretta.
È bello esplorare l’interno del mostro, carpirne i segreti. Il raziocinio dello spazio ristretto mi affascina. Sono Pinocchio, nella pancia della balena. Da dentro non vedi, davvero; non sai che succede all’esterno; non puoi fare altro che eseguire a puntino i tuoi meccanismi e sperare, affidato agli occhi di altri. Quando rimetto il naso fuori dalla botola alta, quasi a cavallo del cannone, ho un senso di sollievo. Mi danno un elmetto, che fa la testa pesante.
Si regga bene, Tenente, e buon divertimento!
Maestosa, la belva si sveglia. Uno sbuffo osceno di nafta, che persiste nell’aria, e un rombo che comprime il silenzio. L’immonda potenza vibra, freme, pronta allo scatto. E poi va. Ci muoviamo.
Sotto di me intuisco la testa di chi governa tutto questo metallo, mentre davanti a noi i sassi e le dune spariscono, mangiati dai cingoli. Il Leopard è sorprendentemente agile, pure se brusco di scatti violenti. Appare monolitico, ma è come dinoccolato e armonico. Mentre avanza, volta la testa su un lato e sull’altro con una dolcezza minacciosa, consapevole di punta. Se vuole si arresta all’istante in due solchi di ghiaia, neanche oscillando. Torce il collo all’intorno come un rapace notturno. Quindi riparte girato, senza guardare. Di fatto non serve guardare, ché nulla si oppone al suo peso incombente.
Lo capisco quando qualcuno ordina via radio la carica. Il motore sale di giri e il carro si lancia alla corsa sfrenata. Se non mi reggo serrato ai bordi del buco, ginocchia piegate, mi spacco la schiena di oscillazioni violente e di colpi sul ferro. Non esistono più dune e saltelli: il mostro galleggia le sue tonnellate a sessanta all’ora, e tutto sparisce sotto la sua pancia. Vedo una grossa macchia di vegetazione, un albero al centro, un tronco di cinque o sei anni, avvicinarsi di corsa. Mi serro al bordo del buco e penso che c’impenneremo. Ma nulla. L’albero sfronda, agita la sua testa ricciuta in un grido di morte, il tronco si schianta e sparisce sotto, senza che noi si abbia un sussulto.
A fine corsa, dopo circa un chilometro, la belva rallenta e si ferma. Sono impressionato e scosso, mentre rientriamo al passo verso il comando. Quando scendo a terra, le ossa e le membra mi vibrano dentro. Prosegue inconsulta l’eco fremente di tanta potenza.
Più tardi, mentre facciamo ritorno in caserma, guardo l’orologio a vedere che ora si è fatta. Il tempo dilata, nelle esperienze forti. È lì che mi accorgo che le lancette navigano libere nel quadrante, scavicchiate dal perno, mentre il movimento del meccanismo prosegue inutile, fine a sé stesso, non più legato a una relatività. La potenza sconcia del mostro, lasciata colpire, distrugge anche i riferimenti, non solo le cose.

***

Ringrazio Tasson. Guardo i ragazzi negli occhi: dobbiamo schierarci e non farci vedere. Verranno da Est, ma non sappiamo quando. Fermarli, piccoli come siamo, e non essere presi. Non farci inquadrare dai loro strumenti di punta. Loro, per contro, non sanno dove saremo, a che altezza del greto. È convenuto così, tra gli alti comandi, per rendere la cosa credibile e utile. Segreti di Pulcinella, chiede qualcuno? Forse, ma meglio non crederci. Più divertente. Partiamo.
Le vecchie ’59 spernacchiano in accensione. Una dopo l’altra si avviano alle postazioni prescelte. Abbiamo deciso di sfruttare una lunga balza trasversale, alzata dai mille riporti dell’acqua negli anni. Attenderemo che il primo di loro ci mostri la pancia, superandola, per dare fuoco alle polveri. Un colpo e cambiare posizione, anche solo di poco, sfruttando la vegetazione per non farli mirare. Terremo per un po’ la quota, cercando di contenerli, fino a che la distanza ci consentirà di operare sul loro momentaneo ripiegamento. Quando, infine, li vedremo di nuovo schierati, ripiegheremo a sbalzi coperti, per lasciare spazio alla simulazione dell’ultimo assalto a briglia sciolta: la carica.
Ho scelto un rialzo coperto di vegetazione, sull’argine destro di questo ramo asciutto del fiume, alle spalle dei miei, per osservare non visto. La balza su cui li fermeremo è nascosta da un’ansa del greto, ma di meglio non c’è, qui in pianura. Col binocolo verifico tutte le macchine, in continuazione, mentre l’attesa ci snerva. Comincia a fare caldo, ora che il sole è più alto, e mentre mi levo la giacca della scbt Tasson mi dà un colpo su un braccio. Eccoli! Ascolti, tenente! Mi blocco e tendo le orecchie.
Sgasate lontane e possenti, come muggiti. Rumore di metallo che cigola, sempre più netto. Li vedi? Tasson ora è in piedi sul sedile di guida, la testa dentro al binocolo, gomiti alti. No. Ma li sento, zio caro! Mentre prendo il binocolo e salgo sul mio sedile, esplode la prima delle nostre stima distanza. Vuerich. Ha scelto di essere il più avanzato, il primo a levarsi di mezzo, che ha l’autista più giovane. Vedo il fumo della castagnola alzarsi lento e bianco e, subito dopo, la  ’59 schizzare sui sassi, verso la nuova posizione. Poi un altro scoppio, cinquanta metri a sinistra, e un terzo, poco distante dal primo. Il muggito dei carri, che ancora non vedo, si placa. Cerco febbrile i movimenti dei miei, mentre partono altri scoppi e l’aria sul Tagliamento si popola di nuvole bianche. La squadra di Donutti taglia sul retro delle nostre posizioni, verso il fianco sinistro su cui raddoppiare. Sono venuti su da quella parte, quindi, protetti dall’ombra. Dovrei vederli presto. Cerco ancora a destra e, fra sassi e cespugli, distinguo l’auto di Gregis che parte, mentre scoppia la castagnola. Redi, il conducente è curvo sul volante, un gomito alto a reggere la torsione. Ma Caso, il servente al pezzo, non è ancora riuscito a salire del tutto, dopo avere dato fuoco allo scoppio. La macchina ha uno scarto brusco e lui resta appeso, le gambe ciondoloni, di fuori. Se ne vanno così.
Stasera ci saranno racconti, e lividi da mostrare.
Poi l’aria all’intorno si ferma, risucchia, e si schianta in un tuono. Hanno iniziato a sparare anche loro, dopo averci cercato con gli strumenti. Riassesto lo sguardo nel binocolo e vedo il fumo della salva. Eccolo lì, il primo animale, nell’ombra dell’argine lontano.
I miei si muovono bene. Due sole chiamate di movimenti, in fonìa, dopo la rottura del silenzio radio, segno che tutto gira come previsto. In breve, gli scoppi e i boati cominciano a sovrapporsi, e il muggito dei carri mi dice che loro stanno riprendendo ad avanzare. Siamo al culmine del nostro intervento. A sbalzi serrati abbiamo arretrato, mentre i carri sono oramai quasi tutti in vista, ben oltre la balza, e si preparano al gran finale.
Restano solo due nostre squadre in avanti: Merlini e Basin. Sono quelli che copriranno l’uscita. L’ultimo freno. Erano i due più arretrati, all’inizio, ma i meglio nascosti. Uno dei carri fa per avanzare, mentre esplode il colpo di Merlini. A quel punto il mostro si arresta di nuovo e ripiega di poco. Partono due colpi dei loro.
La radio gracchia. Cervo nove, le squadre sono a casa!
È Donutti. Il terz’ultimo. Quello il segnale, per noi, di lasciare campo alla carica. Il colpo di Basin fermerà i carri di quel tanto, utile a togliersi definitivamente di mezzo, ripiegando ai lati, sugli argini.
Ma Basin non risponde.
Cervo nove ripeto, cervo nove: le squadre sono a casa!
Silenzio.
Donutti insiste. Dài, Cervo 9, ce ne andiamo!
Ancora nulla.
Basìn, Zio Maiale, ‘ndémo! Spara quell’ostia, Basin!
Ma Basin non risponde, non spara e, soprattutto, non si muove.
La sua macchina si trova in un piccolo avvallamento del terreno, circondato da vegetazione, basso quel tanto da lasciare a livello solo il vivo di volata del 106. Se lo è scelto con cura, nei giorni passati.

La carica parte mentre ancora mi chiedo cosa stia succedendo.
I motori dei carri si uniscono in un fragore impressionante e, da lontano, comincia la corsa. Compongono subito un fronte, che occupa tre quarti del greto, e aumentano progressivamente la velocità, lasciandosi dietro una nuvola di scarichi e polvere. Travolgono tutto.
Sto per strillare qualcosa in radio, quando la macchina di Basin salta fuori dal suo avvallamento a retromarcia, inverte la rotta girando su di sé, e parte a missile verso le retrovie. Vedo oggetti volare via da un lato della vettura ma non ho il tempo di pensare, perché dietro di loro, nell’inquadratura, entra la sagoma di un carro lanciato.
Il Leopard più estremo, dall’argine opposto, ha effettuato uno scarto all’interno, e ora punta la piccola macchia dov’era Basin un attimo prima, a non più di settanta, ottanta metri da lui. Li ho entrambi nel binocolo, tanto sono vicini, e la prospettiva schiacciata li avvicina di più.
La ‘59 ondeggia, fatica a prendere velocità, carica come è di uomini e 106; sbanda sulla ghiaia che sembra scivolosa, ora a destra ora a sinistra. I ragazzi si voltano spesso all’indietro, tranne Mancuso alla guida.
Sento Donutti, via radio: Animali nella stalla! Animali nella stalla! Via tutti! Fora dai coioni! Dà lui il comando alle altre squadre, per l’ultimo movimento verso i lati.
Subito dopo il mostro lanciato calpesta la postazione di Basin, passando piatto sull’avvallamento vuoto. Tra lui e il 106, che prova a scappare, non restano ora che un pugno di metri di ghiaia distesa.
E d’improvviso la svolta. La macchina di Basin fa uno scarto a destra, deciso, e punta l’argine; s’infossa in un basso, riemerge saltando e finisce in un tuffo nel verde. Il carro che le stava sul collo prosegue diritto, in batteria con gli altri, inarrestabile.
Passano poco dopo, fragorosi e insolenti, davanti alla mia postazione e tirano oltre. Più in là si fermano, allargandosi a raggiera, come soddisfatti della razzia.
Fine.

È sera e siamo in caserma, di nuovo tra i monti.
Finisco la lunga relazione per il Capitano Drusi, che domani vorrà sapere ogni dettaglio.
La Rv2 di Basin non andava più. Era morta.
Smanettare, provare ripetutamente a chiamare, urlare, a nulla è servito. Ma ha fatto perdere loro tempo prezioso.
Il carro che si avvicinava di carica ha lasciato paura, che ho visto dipinta negli occhi dei racconti, allo spaccio, dopo cena, quando sono andato a offrire da bere. Tutti accalcati a riferirmi la scena, a ripeterla mille volte, tra risa e sberleffi. L’autista Mancuso che strilla Che faccio? Basin che non si decide e guarda ora la radio ora il carro, ziopòrco, che è grosso, grossissimo. Mancuso che accende e parte lo stesso, bestemmiando come solo lui sa fare! Via via via via! Vacca di una… Dotti che prova, tremando che sembra mio nonno, a sparare la castagnola ma non ci riesce e la butta. La ’59 che va, oscilla, e sembra sempre si cappotti. Basin che perde la radio, per reggersi e non finire sbalzato. La radio schiacciata dal carro, accartocciata (recuperata più tardi), che ora ha la forma del… naso di Mancuso, no, di tua madre, risponde Mancuso; no, no, (concordano tutti) della faccia del maresciallo Puddu! La consegna a Donutti per avere detto nomi in chiaro alla radio, e avere usato termini non consentiti; ma ziocàne, tenente, quelli ci pestava come l’uva!
Su tutto, però, resta una frase. Il primo commento assoluto in adunata, ancora sul Tagliamento, appena finita l’esercitazione.
Una voce nel mucchio.

’Tenènte, tornémo a casa, ziocàn! Basta carri! Meglio sgambare col zaino!

 

Paolo Scatarzi (fly_scat@alice.it), è nato a Roma nel 1961. Ha frequentato il 113° corso AUC alla Scuola Militare Alpina nel 1983 e prestato servizio di prima nomina nella Compagnia Controcarri della Brigata Alpina Julia, a Cavazzo Carnico. Sposato con due figli, vive a Roma.

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