Così si perdono le guerre 
        di Danilo Dal Monte   
  
       « Buongiorno  signori e benvenuti nel nostro poligono di tiro » disse il Colonnello battendo  sulla mano sinistra il guanto che impugnava con la destra, guantata di morbida  pelle scura. « Come notate, per le sue dimensioni questo poligono riproduce una  situazione del tutto reale. »  
   Baffetti,  fisico asciutto, tratto elegante e distaccato, il Colonnello aveva tutta l'aria  del generale Montgomery.  
   « Ecco qua… » continuò indicandolo, « …il  pezzo sul quale vi alternerete, uno per volta, cercando di colpire la sagoma di  carro armato che vedete muoversi laggiù, in mezzo al ghiaione, su un binario  parallelo a noi ».  
        Il  "pezzo" era un cannone enorme, che troneggiava in una postazione  scavata nella roccia come un nido d'aquila, a vigilare sul fondovalle.  
  « I  due serventi ai lati del cannone » precisò, « sono ai vostri ordini per  tutte le operazioni di caricamento,  puntamento e sparo. Ricordate, signori: il vostro compito è dare gli ordini;  ordini precisi e a voce alta, senza tentennamenti ».
   
         Col sorgere  del sole, lunghe strisce di luce si stendevano via via a illuminare il vallone  sotto di noi, mettendo in risalto il binario che, per un buon tratto, correva  sul fondovalle. Sul binario, la sagoma mobile di un carro armato si spostava  lentamente. Alto sopra la valle, un grande corvo nero volò con vigorosi colpi d’ala  lungo tutto il percorso ferrato, consegnando all'eco acutissime strida.  Nonostante il freddo, e il vento, tutto lasciava  presagire una bella giornata molto  interessante.  
  « Perché  » riprese il colonnello dopo una brevissima pausa, come per darci il tempo di  valutare le sue parole, « …fraintendere gli ordini porta sempre male,  specialmente in guerra; peggio ancora, confondere chi deve dare gli ordini e  chi deve eseguirli ».  
        Mentre  parlava pensai che, dal giorno in cui avevamo indossato la divisa di allievi  ufficiali, quel Colonnello era il primo a rivolgersi a noi chiamandoci  "signori", come fossimo realmente tra pari, alle prese con questioni  di capitale importanza.  
        Figura  eretta, pressoché immobile,  sguardo lontano quasi assente, egli accompagnava le parole col solo gesto della  mano destra. Batteva sul palmo della sinistra il guanto sfilato; la sinistra lo  tratteneva appena un poco, per poi lasciarlo andare lentamente, a sottolineare  i passaggi chiave del discorso. Trattenne il guanto un pò più a lungo, come  avesse una preda tra le fauci, quando disse: « …il vostro compito è quello di  dare ordini »; e poi ancora « …confondere chi deve dare gli ordini e chi deve  eseguirli ».  
  « Solo  quando siete ben sicuri che tutto sia pronto » raccomandò, « ma senza aspettare  che il bersaglio vi sfugga, gridate:  "fuoco!", con la convinzione di avere già fatto centro. Tenete presente che, data la  distanza del bersaglio, e la tipologia dell'arma, il tiro risulta praticamente  teso ».
   
         Il  Colonnello passò quindi a nominare, indicandole una ad una, le parti del  cannone, specificandone la funzione. Infine volle darci lui stesso una pratica  dimostrazione delle operazioni che precedevano l’ordine di fuoco, serrate ed  esatte come un algoritmo. I suoi comandi suonarono come colpi di stocco, a  lacerare il silenzio, mentre i serventi eseguivano movimenti svelti, meccanici  e precisi, come fossero pròtesi solidali del pezzo d’artiglieria. Noi allievi,  in fila ordinata, tenevamo d’occhio il cannone e la sagoma del carro armato in  movimento, che stava lentamente per sparire dal raggio d'azione del pezzo. Irrigiditi  attendevamo il comando di "fuoco!", la fiammata dalla bocca del  bestione e, infine, di vedere il macinino ansimante laggiù, lontano, schizzare  in mille coriandoli. Tuttavia, proprio al momento di gridare:  "fuoco!" il Colonnello interruppe la sequenza. Ordinò ai due serventi  di scaricare l'arma e di riporre il proietto accanto alle altre munizioni, perfettamente  allineate in un ampio spazio fuori della postazione. Nonostante la delusione  per il colpo mancato, furono chiare a tutti le ragioni che lo avevano indotto a  non comandare lo sparo: se avesse fallito, avrebbe fatto una figura non bella;  viceversa, se avesse centrato il bersaglio avrebbe esibito una bravura  eccessiva, una caduta di stile insomma, nei confronti di chi tra noi avesse poi  fatto cilecca.  
  "Che  gentiluomo!" pensai. "Che classe!"  
  « Un’ultima  cosa, signori » aggiunse il Colonnello con lo stile di un perfetto lord  inglese. « Prima di dare gli ordini, verificate sempre che tutto sia stato  valutato e controllato. Ricordate, signori: dubitate di tutto e non date mai  nulla per scontato, perché ogni colpo fallito costa sempre molto caro. Tutto  dipende da voi: l'esito, positivo o negativo, sarà esclusivo merito o demerito vostro ». Nel  dire « dubitate di tutto » la sua mano sinistra quasi azzannò il guanto che la  destra le porgeva, e lo trattenne a lungo.  
  « Signori  », disse infine: « possiamo iniziare. E buona fortuna ». 
      * 
       Eravamo  partiti da Aosta verso la Carnia, in Friuli, per seguire un breve corso di tiro  coi cannoni. Così ci era stato detto.  
      Ricordo  bene i giorni che precedettero la partenza. C'era grande agitazione nella  caserma Cesare Battisti. Dicembre era appena iniziato e il nostro corso per  allievi ufficiali si sarebbe concluso di lì a breve, poco prima delle feste  natalizie. Gli allievi, come future spose con l'abito nuziale, erano tutti  presi dalla nuova divisa, la diagonale, quella su cui, superato positivamente  il periodo da sergente, si sarebbe appuntata la stella da sottotenente, primo  gradino del rango di ufficiali. La divisa ha sempre avuto un fascino  particolare, non solo sulle donne. Perciò le ore di libera uscita serale erano  tutto un andirivieni per l'acquisto della stoffa e per la ricerca di un sarto  esterno, visto che il panno fornito gratuitamente dall'Esercito e la sartoria  della caserma, pure gratuita, non erano giudicate all'altezza di certi gusti  raffinati. Furono veramente pochi a non lasciarsi adescare da tale vanità. Sicché, mancando l'affollamento dalla sarta  della caserma, quei pochi ebbero la diagonale già pronta molto prima di lasciare Aosta per il  Friuli. E gratis, per giunta. 
         Gli  impegni del corso si erano ormai allentati. Lo spirito di adattamento e la  strepitosa forma fisica raggiunta ci avevano reso più sopportabili le fatiche  degli esordi. In vista delle prove finali, poi, al posto delle esercitazioni  pomeridiane spesso eravamo autorizzati a dedicarci allo studio, al ripasso  delle famose "sinossi", vera "summa" del sapere militare. Le  ultime incombenze non destavano in noi grande preoccupazione. Si diceva che,  giunti a quel punto, la promozione fosse ormai un dato acquisito: si trattava  solo di stabilire una graduatoria di merito. Così, alla sera andavamo in libera  uscita a passeggiare per il centro della città, minuscola e raccolta come un borgo, già in clima natalizio, per finire poi  immancabilmente in qualche locale ad alleviare, per  l'ennesima volta, un appetito insaziabile. Una brezza tepida alitava per le  vie, quasi ad annunciare un’estemporanea primavera. Era il vento caldo del  Sahara che, risalendo la valle della Dora, s'insinuava in quelle straducole e  si univa alla nostra allegra impazienza. Non vedevamo l’ora di concludere  quella stagione e d’iniziarne un'altra, contrassegnata  dalla nuova divisa. Avremmo ricevuto  finalmente uno stipendio mensile ben diverso dal soldo della misera  "deca", senza più chiedere incerti sussidi da casa. Misera  "deca" che, di  solito, univamo tra amici in un'unica somma da tirare a sorte, affinché diventasse  disponibilità imprevista  per un fortunato vincitore, e che il più delle volte veniva interamente  devoluta a un brindisi collettivo. Ad alimentare quel clima di festa era  soprattutto la consapevolezza che lo "stare agli ordini" si sarebbe  presto tramutato nella responsabilità concreta  di "dare degli ordini".  
   In quei giorni ero preso dalla lettura  dell'"Elogio" di Erasmo, trovato nella gracile biblioteca della  caserma, da poco costituita con i rari lasciti   degli allievi, e mi soffermavo spesso a pensare all'affinità tra follia ed errore: l'una e l'altro, mi  dicevo, sono sale della vita e fondamento di conoscenza.     
        In  quell'ebbrezza da smobilitazione imminente, per alcuni di noi, una ventina in  tutto, era giunto l'ordine di prepararci a un trasferimento in Friuli per  seguire un corso di tiro coi cannoni. Un viaggio imprevisto, un diversivo che  ci allontanava dalla caserma e dai suoi impegni quotidiani, verso luoghi che  qualcuno, come me,  ancora non conosceva.  
      Una  cosa molto gradita.  
      *  
                                                             
         Da  Aosta fino a Carnia viaggiammo per un'intera giornata col treno  "accelerato", che a quel tempo si fermava in tutte le stazioni.  Partimmo eccitati e vispi alle luci incerte dell'alba; giungemmo a destinazione  sfiancati, a notte fonda. Le prime venti  fermate circa, piccole stazioni sulla tratta Aosta-Chivasso, binario unico,  cento km gestiti dal Genio Militare, ci misero allegria. Le luci del nuovo giorno davano via via  rilievo e potenza al paesaggio inciso dalla Dora, fiancheggiato da ciclopiche  altezze. Come nella danza di due pattinatori, treno e fiume giocavano a  rincorrersi: a tratti il treno accostava il fiume, accompagnandolo; poi se ne  discostava all’improvviso, là dove la valle era più ampia e distesa; altre  volte lo scavalcava, con sonoro sferraglio di ponti; fino poi a incunearsi  insieme, treno e fiume, nella stretta di Bard e uscirne entrambi quasi avvinghiati,  là dove la valle si allarga nella piana verso Ivrea; separandosi, infine,  ognuno per la sua strada, tra quinte di montagne che prendevano i colori della  lontananza. Com'era diverso questo viaggio da quello di cinque mesi prima,  quando risalivo la valle per presentarmi alla Cesare Battisti! E com'era  diverso il clima! Allora, in un turbine di sentimenti negativi, quasi non mi  ero accorto della possente maestà del  paesaggio. Ora, invece, la gaiezza riempiva l'animo di tutti; la novità si univa all'incanto dei luoghi; e la vigilia  del trasferimento definitivo verso i reparti, ci faceva respirare aria  di libertà.  
        « Dopotutto  » diceva qualcuno, « il peggio è passato, ragazzi. D'ora in avanti sarà tutta una pacchia ».  
         « Veramente ce la siamo meritata » rispondeva  un altro, « non è da tutti fare ciò che abbiamo fatto. Non per nulla si è dovuto  superare un concorso d’ammissione! ».  
        « Pensate  a quanto investe lo Stato, per formare un ufficiale come noi » aggiungeva  ancora un altro. E si facevano conti, e si pronunciavano cifre sbalorditive,  per dare maggiore risalto al nostro merito e al nuovo ruolo che ci aspettava.  Un'atmosfera di moderata goliardia aleggiava, degna di futuri ufficiali.  
       A  Mestre, in attesa della coincidenza per Udine-Tarvisio, era prevista una sosta  un pò più lunga del solito, tempo per abbracciare Carla, la maggiore  destinataria della mia corrispondenza "dal fronte". La vidi dal  finestrino, sulla banchina, in piedi, con un'aria d’attesa e trepidazione che  la rendeva più bella del solito. Sembrava Lara, la protagonista del film  "Il dottor Zivago", con colbacchino, la pelliccia corta e lunghi  stivali allora molto di moda, mentre il treno rallentava la sua corsa con  schiamazzo. Io già mi  sentivo Zivago, col cappottone militare che mi fasciava fino ai piedi, nobile  ed eroico insieme. Quel personaggio mi accompagnò per tutto il tempo della  sosta. Gli ingredienti del film c'erano tutti, o quasi (mancava solo la  rivoluzione): la stazione, il treno, l'innamorata, l'incontro fuggevole e,  soprattutto, quel sentirsi chiamati a grandi imprese con ruoli da protagonista.  Dopotutto eravamo anche noi diretti verso terre di confine per affinare la  nostra preparazione, per essere pronti, nel caso, a difendere il Sacro Suolo. Il viaggio, l'incontro con l'amata,  la novità di  vedersela a breve con dei veri cannoni, la prossima conclusione del corso e il  trasferimento in altra sede, tutto concorreva a favorire un’euforica  esaltazione. A far da sottofondo, lo struggente motivo della colonna sonora del  film, la canzone di Lara, che mi frullava incessantemente in testa, anche  quando, quasi al volo, salii sul treno in partenza, dopo un ultimo tenerissimo  abbraccio.  
      *  
                                                        
         Fuori  dalla stazione di Carnia, nel buio più fitto, ci attendeva un  caporalmaggiore barbuto, più giovane di noi,  che al lume incerto di una torcia ci inquadrò con maniere brusche, villane, noi  futuri ufficiali, e senza tanti complimenti, incurante sia del rispetto dovuto  alla nostra maggiore età, sia  alla stanchezza che il viaggio ci aveva inflitto.  
        « Questo  ci sta trattando da reclute di primo pelo », era il pensiero di tutti, « forse  non sa nemmeno chi siamo! Possibile che non sia stato avvertito? ».  Nessuno, ahimè, si prese la briga di  sciogliere l'equivoco, e tutti ci adeguammo in fretta ai suoi ordini, precisi  come i montanti di un pugile.  
         La caserma si trovava a qualche centinaio di  metri dalla stazione, sepolta nella nebbia, alla confluenza del fiume Fella con  il Tagliamento sulla strada che porta a Tarvisio. Avviandoci, mi colpì l'assenza  totale di luci. Ebbi l’idea di un luogo desolato, pervaso da un'aria fredda,  tagliente, assai diversa da quella che avevamo lasciato alla partenza.  "Postaccio da lupi e da volpi" pensavo camminando in fila, e in  silenzio, facendo attenzione a dove mettere i piedi per non scivolare sul  ghiaccio delle pozzanghere.  
         L'ingresso  della caserma era uno stanzone freddo, semibuio, con una fila di sudici lavandini posti al centro,  sbrecciati e gocciolanti. Tutt'intorno, appoggiate alle pareti vi erano diverse  rastrelliere, assiepate di fucili, baionette, elmetti alla rinfusa. L'insieme  dava un'impressione di disordine e di scarsa pulizia, da non confrontare  neppure lontanamente con l'ambiente da cui venivamo. Considerata l'ora tarda,  il graduato ci indicò subito la camerata dove trascorrere la notte e, nel  lucore di una tirchia lampadina, ci stendemmo in fretta sulle brande che  odoravano di muffa. Nonostante il viaggio, il freddo e la mancata cena, il  sonno non tardò ad arrivare e a farla da padrone. Quanto alla cena, va detto,  avevamo fatto buona scorta in tutti i servizi-bar delle varie stazioni  incontrate.  
        L’indomani,  la sveglia fu gracchiata da un catarroso altoparlante. Per lavarci dovemmo rompere  il ghiaccio che si era formato sul fondo dei lavandini. In cortile, l’alzabandiera si svolse in un freddo da  togliere il respiro, senza alcuna traccia dell'alba. In alto, fredde stelle  diamantine, come punte acuminate, fendevano buchi nel cielo scurissimo. Dalle  valli d'intorno scendevano, sibilando, gelide correnti d'aria, come spire di  serpenti, e sembravano tutte essersi date convegno in quel cortile, ingombro  agli angoli di cumuli di neve e sprovvisto di qualsiasi riparo. Partecipavano  anche loro a quella liturgia e incidevano con rasoiate di ghiaccio le parti  scoperte del corpo: mani, nuca, orecchi, collo, viso, naso.  
         Attigua  al complesso principale della caserma, una bassa costruzione dal tetto in  lamiera, malamente riscaldata da una fumigante stufa a legna, ospitava in  un'unico ambiente il refettorio, la cucina, lo spaccio e perfino un cesso. Era  il luogo dove la piccola guarnigione passava la maggior parte del tempo libero  dato che, fuori, il paese, pressoché inesistente,  non offriva che desolazione.  
        Dopo  la colazione, nel cortile c'era un camion ad attenderci. Due alpini stavano  arrotolando il telone, scoperchiando totalmente la parte posteriore, dove  avremo preso posto noi, per andare, si pensava, a prendere contatto con i  cannoni.  
        "Ma  come" mi dicevo, "con il freddo che fa, questi non saranno così insensati  da togliere l'unico riparo che possa salvarci! Da non credere!".  
         Quando  tutti fummo a bordo, seduti nel perimetro interno del cassone scoperto,  "en plein air" come se si andasse in piena estate in gita al mare, il  camion si avviò verso Tolmezzo. Costeggiò da un lato le montagne, la cui  asprezza avrei conosciuto qualche mese più tardi; dall'altro lato della strada  invece, mentre un tisico sole stentava a farsi largo tra le brume, gli occhi spaziavano  su una distesa piatta di ghiaie e massi erratici, il paesaggio diluviale  sconfinato in cui, alla confluenza di fiumi e torrenti, originava il  Tagliamento.  Tutt'intorno, nei campi,  sugli alberi, lungo i cigli della strada, sui pali e sui fili della corrente  elettrica una brina spessa metteva in risalto i contorni delle cose. Sentivo di  non poter resistere alle sventagliate d'aria gelida che colpivano con violenza  la faccia ben rasata, le mani nude e la nuca freschissima di barbiere (avevamo  coercitivamente fruito dei suoi servigi, pur non necessari, prima di partire da  Aosta), perciò, ad imitazione di altri compagni, infilai i guanti di lana che  tenevo in tasca e sollevai il bavero del cappotto, che mi coprì fin sopra la  testa, lasciando liberi soltanto la piuma del cappello e gli occhi.  
         "Avevo  giudicato male questo cappotto"  pensai.  "Quando nei primi giorni ad Aosta ci fu la distribuzione del vestiario, lo  indossammo tutti, per un'intera giornata, nel cortile afoso della caserma sotto  il solleone di luglio. Aspettavamo che il guardarobiere prendesse le misure,  per evitare che a qualcuno, lusingato della moda dei cappotti sopra al  ginocchio, venisse il ghiribizzo di accorciarlo. Quanto lo odiai allora!".  Ora invece apprezzavo tutte le sue dismisure, che offrivano buoni ripari dal  gelo e dal vento.                
        Il  solito caporalmaggiore, ora seduto in cabina accanto al conducente, a un certo  punto si accorse che il mezzo stava praticamente trasportando dei sacchi, da  ciascuno dei quali fuoriusciva una penna nera di corvo. Il camion  si fermò a un lato della strada e il graduato  ne scese spavaldo, si avvicinò a noi e disse, con latrati che uscivano dalla  barba come nuvolette di vapore:   « Ehi, topi! Non stiamo portando novizie al  convento delle orsoline! Togliete subito quei guanti e riportate il bavero al  suo posto! E sia chiaro: niente mani in tasca! ». Poi, con l'indice rivolto a  me, che nel frattempo mi ero spostato a ridosso della cabina per ripararmi dal  vento, « …E tu, » disse (era chiaro che non ci avrebbe mai dato del  "lei" e che ci considerava meno di niente), « …e tu, » ripetè schiarendosi  la voce,  « …vieni via di là e mettiti da un lato, come gli altri! » Il  tono perentorio non ammetteva repliche e tutti ubbidimmo come pecore, in silenzio.  Riponendo i guanti nelle profonde tasche del cappotto sfiorai con dita di  ghiaccio il libretto di Erasmo, che avevo portato con me.  Lo accarezzai a lungo in cerca di un po’ di  calore.  
      Quel  villanzone che portava una piccola penna d'aquila cascante sulla falda del  cappello non solo ci dava del "tu" ma ci apostrofava,  chiamandoci  "topi", noi,  futuri ufficiali...  "Ma  chi dunque credeva di essere!? Qualcuno  arriverà pure  a fermare una simile insolenza!" dicevo tra me.  
      *  
                                                    
         Solo  alcune settimane più tardi, quando fui definitivamente trasferito in Carnia per  trascorrervi il resto del mio servizio, passando in quasi tutte le caserme e i  distaccamenti di quella regione avrei avuto contezza del significato di  "topo", appellativo  che il  "nonno", ossia colui che aveva facoltà di segnare su un montante della branda i  giorni che lo separavano dal prossimo congedo, attribuiva alla giovane recluta.  
        "Topo"  stava a indicare lo stadio embrionale della recluta, ben visibile dalla  posizione della penna di corvo che portava sul cappello: dritta, quasi  perpendicolare sulla fascia. Sempre più cadente all'indietro era invece quella  del "nonno", fino ad arrivare addirittura al di sotto della fascia,  perciò chiamata anche "la stanca".  
         Il  "nonno" fregiava il proprio cappello, ormai un lurido cencio dopo le  mille "bufere" trascorse, con una piccola penna d’aquila e poteva  permettersi di portare impunemente barba e capelli lunghi, che costituivano  entrambi un buon riparo dal freddo. Tutta la sua persona, sciatta e trasandata,  aveva un portamento di svogliata stanchezza; in realtà era vigile e pronto a scattare se l'ordine  veniva da un'autorità che  avesse dato dimostrazione "sul campo" di meritare la stima. Perciò,  da soli, i gradi non bastavano ad esercitare l'autorità sui "nonni". La resistenza fisica,  lo sprezzo del pericolo, la condivisione delle fatiche e delle solenni bevute,  soprattutto la provata capacità di  saper tutelare i propri sottoposti in ogni circostanza: questi erano per il  "nonno" i requisiti dell'autorità. Quanto alla recluta, ancora ingenua e  sprovveduta, al suo arrivo al battaglione veniva affidata al "nonno"  per la tempra del carattere, con un trattamento d'urto che rasentava spesso il  nonnismo più torvo, vietato dai regolamenti e tuttavia tollerato se non  addirittura favorito, oltre che dai superiori, da una barbarica tradizione dura  a morire. Il "topo" subiva in silenzio quelle angherie, serbando  intatto tutto il suo rancore per le successive generazioni di "topi",  quando a sua volta egli stesso sarebbe diventato "nonno".   
        La  nostra penna corvina di allievi ufficiali, con guance rubiconde e ben rasate,  si ergeva dritta come un parafulmine sul cappello immacolato. Come dunque  passare inosservati con quel nostro portamento da "tubi nuovi di  fabbrica", completamente sguarniti da "bufere", ancora da  rodare, o meglio, da "sbranare"?  
      Non  sarà stata proprio quella,  mi chiesi tempo dopo, la vera ragione del nostro viaggio?  
      *  
           
         Il  camion che ci trasportava arrestò infine la sua corsa nel cortile della caserma  del Comando di Battaglione, a Tolmezzo, dove due grossi obici facevano bella  mostra ai lati dell'entrata principale. Non erano certo quelli i cannoni che ci  aspettavano.  
        Scendemmo  tutti con quella atletica eleganza che non denuncia mai lo sforzo e che avevamo  affinata già ad Aosta, dopo sfibranti esercitazioni,  consistente nel toccare terra o, viceversa,  nel salire sopra il mezzo, come se non esistesse alcun dislivello tra  pianterreno e cassone. Un, due e... op-là!  Eseguimmo l'esercizio alla perfezione, pensando che sicuramente qualcuno,  magari il comandante in capo, ci osservasse da qualche finestra. Non avrebbe  certamente mancato, al momento di riceverci, di apprezzare la nostra gagliardia  (dai dettagli s'indovina la sostanza delle cose), con quel tono di superiore  distacco che si usa tra ufficiali (anche se futuri).  
        Nel  frattempo il caporalmaggiore ci inquadrò e ci fece marciare fino a un angolo  abbandonato del cortile, imbiancato dalla brina, sepolto nell'ombra più cupa.  Poi se ne andò e noi rimanemmo là,  inquadrati e immobili come pali, ad aspettare nel gelo.   
        Una  linea netta  tagliava il cortile in due  zone: quella occupata dall'ombra e quella invasa dal sole, ora nel suo pieno  splendore mattutino. Come due arieti che si affrontano muso a muso, sole e  ombra si contendevano il terreno di quel cortile. Centimetro dopo centimetro,  il sole, più forte, costringeva l'ombra ad arretrare, spostando lentissimamente  quella linea  verso di noi, purtroppo  sempre lontana, irraggiungibile. Supplizio di Sisifo per chi era là ad attendere...  A mano a mano che il sole avanzava, osservavo  la brina sui rami sciogliersi in pianto, mentre sentivo i miei piedi, costretti  nell'immobilità,  trasformarsi in due blocchi di ghiaccio.  
        Quando  infine il caporalmaggiore si rifece vivo, il sole non era ancora riuscito a  conquistare il nostro angolo d'ombra e di gelo, anche se di tempo ne era  passato parecchio. L'aveva studiata bene la sua prima lezione di  "sbranamento", quell'infame: seppellirci per due ore in un sarcofago!  Poi ci disse che non era quella la nostra destinazione, dovevamo spostarci  altrove, e ci fece risalire in fretta sul camion, profondamente delusi.  
                                                        
         Ripercorrendo  la strada verso Carnia guardavo le montagne dirupate, brulle, appena spruzzate  di neve, che non avevano nulla della titanica solennità delle cime valdostane. Pensavo: "la  croce è la sola pianta che può svettare su queste povere cime". Né meno  desolati apparivano i rari grumi di case che incontravamo per via, tutti  segnati da squallore e miseria.  
        "Speriamo  di non finire confinati quassù" ci auguravamo tutti.  
        Allora  non immaginavo quanto avrei amato, più tardi, quelle "montagnutis"  (affettuoso appellativo degli abitanti di quei luoghi alle loro montagne) e più  ancora quei paesi e quella gente. Appena qualche anno dopo, subito dopo il  terremoto che squassò la regione, non avrei saputo trattenere un pianto  dirotto, abbracciato a un'anziana donna che mi consolava (lei consolava me!),  davanti al cumulo di macerie cui era ridotta la sua casa e alla spaventosa  desolazione di quello che era stato il suo paese.  
        Frattanto,  risalita la valle del Fella, verde e infido come un serpente, sulla strada che  porta a Tarvisio tutta disseminata di insediamenti e opere militari, avevamo  concluso il nostro viaggio davanti alla caserma di Ugovizza. Pensammo tutti che  quella fosse la meta finale, a giudicare dal sito: un buon posto da cannoni,  per contrastare il transito di un possibile tentativo di invasione  nemica.  
         In  alto sul portone d'entrata, accanto a una goffa immagine stilizzata di una  testa canina, campeggiava la scritta "La tana del lupo",  denominazione sicuramente risalente alla prima grande guerra ed emblema assai  appropriato di quell'ambiente selvaggio. All'interno, il muro di cinta era  completamente dipinto di nero, così come la maggior parte degli alloggiamenti.  Su un lato, per tutta la lunghezza, spiccava enorme, in rustici caratteri  cubitali tirati a calce, il motto "Tasi e tira". Le due scritte,  quella esterna e quella interna insieme, non lasciavano dubbi sull'essenza del  programma rieducativo del luogo. Si diceva infatti che quella fosse una caserma  di punizione. E più che di caserma aveva l'aria di un penitenziario.  
        Mentre  stavamo saltando a terra dal cassone del camion, con la consueta destrezza, un  trombettiere suonò l'adunata per il rancio. Nessuno fece caso alle nostre  atletiche evoluzioni, che dovevano apparire esibizionismo infantile agli occhi  di chi era abituato a passare la nottata di guardia anche con 20° sotto zero. I  soldati, intorno a un enorme lavatoio di pietra orlato di ghiaccio sul quale  zampillava un potente getto d'acqua, erano intenti a sciacquare le proprie  stoviglie: la gamella, il bicchiere di stagno e il coltello multiuso, dotato di  forchetta cucchiaio e lama. Tutti raggiunsero in fretta il luogo dell'adunata.  Ci apparve insolita l'usanza di lavare a quel modo le stoviglie, singolarmente,  all'aperto, e il tipo stesso di stoviglie ci lasciò perplessi.  
        Appena  la tromba sgangherata tacque, un capitano dal centro del cortile gridò a gran  voce: « Compagnia, attenti! » e tutti scattammo irrigiditi come un sol uomo. Il  nostro gruppetto si era tenuto in disparte, discosto dallo schieramento della  truppa. Indossavamo con sovrana eleganza il nostro lungo cappotto sopra il  giubbetto, con camicia e cravatta, come uscissimo da un atelier d'alta moda; le  scarpe lucidissime sbucavano appena dall'orlo dei pantaloni tesi e ben stirati,  la piuma svettante sul cappello come freccia puntata contro il cielo, le  mostrine dorate, da allievi ufficiali, luccicanti nel sole. Volevamo ben  figurare, s’intende, anche nell'atletica rigidezza dell'attenti: ordine,  eleganza, superiore distacco.  
         In  fatto di distacco, sia detto, c'era un abisso tra noi e la truppa. Nei momenti  di silenzio che seguirono gettai lo sguardo sui soldati: avevano tutti una gran  barba incolta e una corta penna spiovente sul cappello cencioso; sotto il  giubbetto sbottonato e tutto spiegazzato, al posto della camicia, indossavano  un maglione kaki. Avevano tutti un'aria sudicia e sciatta. Sembravano davvero  dei topi sbucati fuori da qualche fogna.  
        Il  capitano, pure lui barbuto e poco curato, prese a parlare con un tono di voce  sopra il normale, a scatti, come per cercare le parole. « Alpini » esordì, « oggi  abbiamo in visita degli allievi ufficiali ("finalmente qualcuno ci ha  riconosciuti", si sussurrò tra noi), che si fermeranno qui, con voi. Per  il rancio, s'intende. Forse, tra qualche mese qualcuno di loro sarà pure vostro comandante ». Nel grande cortile,  durante le pause del capitano, si sentiva il gorgoglio cristallino del getto  d'acqua sul lavatoio. Oltre il muro di cinta, nero come la pece, svettavano nel  sole altissimi abeti. « Ora »  continuò il capitano, « siccome non ci sono stoviglie abbastanza per tutti,  sono sicuro che i più anziani tra voi offriranno le proprie ai nostri ospiti… ».  Stridore di corvi volteggianti nell'azzurro, sopra gli abeti. « …anche come  segno di benvenuto » concluse.  
        A  quelle parole seguì un breve silenzio, durante il quale mi dissi che quelle  ciotole per cani, annerite e ammaccate, approssimativamente sciacquate, erano  ben peggiori dei nostri vassoi di latta della Scuola, e non sarebbe stato per  nulla piacevole mangiarci dentro, nemmeno in segno di amicizia. Allora,  purtroppo, non potevamo sapere che la richiesta del capitano costituiva un  affronto intollerabile per un vecchio alpino, che mai avrebbe accettato di  venire posposto a un "topo" ancora da sgrezzare. Fosse pure un  allievo ufficiale, sempre "topo" rimaneva al confronto della sua  intoccabile anzianità. E  cedere la propria gamella a un "topo" rappresentava per il  "nonno" un insopportabile oltraggio.  
         Quel  che seguì fu un rumore sordo e compatto di cose sfasciate, di cocci infranti:  ebbi appena il tempo di osservare, incredulo, i soldati della prima fila fare a  pezzi con le mani le loro gamelle, gettarle a terra e calpestarle con violenza.  Dietro di loro un trapestio di scarponi frullava stoviglie. Tutta l'operazione  si concluse in pochi secondi. Di nuovo il capitano riprese, urlando: « Per  tutta la settimana l'intera compagnia resta consegnata! ». Vale a dire niente  libera uscita più i servizi supplementari. Ancora silenzio; in alto, gracchiare  di corvi; sonoro gloglottare della fontana nel cortile. Intanto mi chiedevo  come avessero fatto quei soldati ad agire così, all'unisono, senza un comando,  senza il tempo di un passaparola. "Mah!" per un momento pensai che  tutta quella sceneggiata, così come la lunga inutile attesa del mattino nel  gelo, facessero parte integrante del corso di tiro. "Un conto è studiare  sui libri, altro sperimentare direttamente. Follia, errore, esperienza: ecco  quello che ci vuole davvero per conoscere il mondo!" mi dicevo, pensando  al vecchio Erasmo. Al "rompete le righe" la parte di cortile resa  sgombra dallo schieramento dei soldati appariva interamente lordata di cocci  neri come carboni.  
        Aveva,  per caso, il capitano, in quel suo parlare a tentoni, volutamente ferito e  aizzato l'orgoglio dei nonni soldati?  
        Se sì,  contro chi?  
                                                    
         Per  l'alternarsi dei corsi, che rimanevano ben separati tra loro, la Scuola  Militare ci aveva fino ad allora risparmiato le pesanti goliardate che gli  anziani riservavano ai nuovi arrivati, contrariamente a quanto invece avveniva  nei reparti di truppa, secondo una tradizione che si rinnovava ad ogni  infornata di reclute. Quando il "nonno" riceveva delle punizioni o  quelle che lui riteneva essere offese alla propria condizione di anziano, si  caricava dello spirito di vendetta esattamente come un fucile, e lo scaricava  sulle giovani reclute, che mai avrebbero osato ribellarsi. La sua vendetta  seguiva sempre un percorso unidirezionale, dall'alto in basso, come nella  favola del lupo e l'agnello. A volte, per vessare la giovane recluta il  "nonno" non aveva nemmeno bisogno di essere mosso da risentimento o  animosità,  che tuttavia aveva già abbondantemente  capitalizzati da "topo". Lo faceva semplicemente per svezzare il  giovane dalle mollezze borghesi e temprarne il carattere alla durezza del  soldato alpino. Altre volte agiva per puro sollazzo, affetto da sindrome di  Nerone. Comunque sia, quel giorno toccava a noi la parte dell'agnello e per una  ragione in più, rispetto a quella di essere gli ultimi arrivati: quale migliore  occasione, infatti, per potersi rifare dei torti subiti dai propri superiori,  se non scaricarsi su futuri ufficiali?  
         La  "cosa" avvenne a notte fonda, quando tutti noi dormivamo da ore il  sonno dei bimbi, in un camerone a parte, distesi sulle brande a castello,  sognando cannoni come fossero giocattoli. A dire il vero, qualche avvisaglia  c'era stata perché quando entrammo nel nostro stanzone, per passavi la notte,  stranamente tutte le brande apparivano perfettamente sistemate, già pronte all'uso. Davvero un bel gesto,  pensammo, che ci risparmiava il fastidio di preparare il letto nel freddo di  quell'ambiente. Forse qualcuno voleva rimediare alla faccenda delle stoviglie  rotte. Bello, no?!, questo spirito alpino, pronto a dimenticare i torti e  volgerli in gesti gentili. Ma, al momento di infilarci sotto le coperte, ci fu  impossibile farlo nell'intrico di lenzuola e di oggetti che si nascondevano  sotto l’apparente perfezione: vi trovammo anche scarponi sozzi di fango! Tutto  da rifare quindi. Si trattava, in fin dei conti, di uno scherzo sopportabile,  che meritava un bel sorriso di simpatia. Qualcosa da raccontare al rientro.  
        Invece  la "cosa" fu ben altro: qualcosa d’indefinito, nel cuore della notte,  improvviso e rapido come un'incursione, da lasciarti stordito per un bel pò,  prima di avere idea esatta di cosa fosse accaduto. Dapprima fu come sognare di  essere investito da un forte acquazzone, seguito dalla sensazione reale di  bagnato, su tutto il corpo; quindi rumore di elementi di ferro che cadono a  terra alla rinfusa e, sparsi come su un campo di battaglia, pezzi di brande,  stramazzi di corpi, lenzuola, coperte, vestiti, tutto inzuppato d'acqua. E il  tutto nel buio più fitto.  
        Quando  mi raccapezzai, seduto a terra con la schiena contro il muro e i piedi  incastrati nei ferri di una branda, sentii i passi veloci di gente che se la  stava dando a gambe.  "Come avrò fatto  a scendere dalla branda più alta del castello?" mi chiedevo tastando gli  indumenti intrisi d'acqua.  
      Fu  dura per tutti arrivare al mattino: avere sonno e non dormire per via del  freddo umidore, che ci avvolgeva come un sudario. 
       L'indomani e il giorno appresso percorremmo avanti e  indietro il tratto della Pontebbana che va da Chiusaforte a Tarvisio, sempre a  bordo di quel maledetto camion versione cabriolet, ma di cannoni nemmeno  l'ombra.  
        "Vuoi vedere" pensavo, "che qui finisce  come il corso di sci ad Aosta?". Un intero giorno dedicato a esercizi di 'attenti' e 'riposo', con gli sci a fianco,  zaino e fucile in spalla; a slegare e legare insieme la coppia di sci; ad  applicare  e togliere le pelli di foca  per affrontare teoriche salite; a calzare gli sci e toglierli; ad affrontare  ipotetiche curve e stoppare. Il tutto, nel cortile della caserma senza la  minima traccia di neve.  
        Nell’andirivieni friulano, invece, visitammo di sfuggita  un paio di polveriere e qualche caserma, soffermandoci a osservare plastici  riproducenti ampie zone di opere e insediamenti militari. Capimmo, se non  altro, che un eventuale tentativo nemico di discendere quelle valli avrebbe  trovato ovunque ostacoli, insidie e opere di contrasto e d’arresto d'ogni  genere, ben nascoste nelle montagne o sotto terra. A Malborghetto, in un grande  prato verdissimo sul limitare di un bosco di larici, mentre osservavamo la  zona, improvvisamente fummo circondati da soldati col fucile imbracciato. Non  capivamo da dove fossero sbucati fuori. Erano alpini, ma sembravano i nani di  Biancaneve un poco cresciuti (anche il paesaggio, in fondo, era quello); agili  come scoiattoli, sparivano e riapparivano, come per magia. Ci chiedemmo tutti  che scherzo fosse quello, da dove uscissero tutti quegli gnomi col cappello  dalla corta penna; quale strana illusione li rendesse improvvisamente  invisibili.  
      Il capitano che ci accompagnava ci rivelò l’arcano. Poco  discosta da noi, ai piedi di un enorme abete, c'era una botola ben mimetizzata,  simile a un formicaio, impossibile da vedersi se qualcuno non l'avesse  indicata: era l'accesso a una galleria sotterranea, che si inerpicava in alto  tra le rocce dove, ben nascoste, occhieggiavano come aquile le postazioni dei  cannoni.  
      *  
                                                    
         Un  mattino di buon ora noi allievi eravamo già in camion sulla strada che da Pontebba scende  a Chiusaforte, abituati ormai a stare là sopra  come si può stare dentro il tunnel del vento senza ripari. A un certo punto il  camion svoltò bruscamente a sinistra e puntò dritto verso le montagne. Superò un  corso d'acqua passando sopra un ponticello in assito e proseguì veloce su una strada non asfaltata,  interminabile, disseminata di grosse buche sulle quali sobbalzava come avesse  il diavolo in corpo. A mano a mano che si avanzava, la strada si ergeva sempre  più in salita e si restringeva, fino a ridursi quasi a un viottolo. Era  difficile immaginare come il nostro mezzo potesse passarvi, tanto più che da un  lato si apriva un dirupo. Più avanti  il viottolo diventò una lunga cengia nel fianco del costone, quasi a  strapiombo, ai cui piedi si stendeva, enorme, un vallone di ghiaie e di massi.  Sul lato opposto del vallone, a qualche chilometro di distanza, si drizzava  un'alta parete rocciosa, nuda e scabra che, con il vallone e il fianco della  montagna dove ci trovavamo, formava una immensa U: era il poligono di tiro,  dove ci saremo esercitati.  
        Il  sole faceva capolino tra due guglie spuntate.   
        Nonostante  le rabbiose folate di vento freddo, le evidenti difficoltà del tragitto e il nostro precario equilibrio  di passeggeri sui lati del cassone, il conducente volle esibire tutta la sua  bravura senza mai rallentare, neanche nei punti più esposti, costringendoci a  tenerci disperatamente aggrappati mani e piedi alle assi dei sedili.  
        « È  sempre la solita questione "topo-logica" o "tubo-logica",  come la volete chiamare! »  commentò qualcuno  tra noi.    
        « Già » aggiunse un altro, « Bisognava pur farla  questa iniziazione ai reparti! ».  
      « Meglio  abituarci a piccole dosi; chissà qual è il vero scopo di questo corso di tiro!  » fece eco un terzo. Dopodiché, un  improvviso sobbalzo del camion impose a tutti un silenzio spaventato. Pregai, durante quel viaggio demenziale;  pregai per la mia anima e per il dolore di mia madre. 
       Era  dunque arrivato il giorno dei cannoni. Che poi, alla fine, di cannoni ce n'era  uno solo. Ma sarebbe bastato. Eccome, se sarebbe bastato!  
        Quando  finalmente il camion si fermò, nessuno aveva voglia di ginniche esibizioni di  discesa dal cassone. I muscoli erano rattrappiti e la mente era stravolta dalla  tensione estenuante del tragitto. Raggiungemmo a piedi, qualche centinaio di  metri più in là, il luogo dove la cengia finiva in un' ampia rientranza scavata  nella roccia, difesa verso valle da un robusto parapetto in muratura. Sopra il  parapetto, da una bassa e lunga feritoia, sporgeva la canna di un cannone  enorme, il quale occupava quasi interamente quella che sembrava la spelonca di  un mostro.  
        Dall'interno  della postazione, guardando giù, verso il ghiaione leggermente in discesa, si  vedevano le rotaie di un binario sul quale si muoveva lentamente la sagoma di  un carro armato, coperta da un telo mimetico. Così lontano da sembrare un  giocattolo. Fuori della postazione, in un angolo defilato a ridosso della  roccia, era perfettamente allineato un gran numero grossi proietti anticarro  con l'ogiva verniciata di rosso. Sul limitare dell'entrata ci attendevano i due  serventi e, poco discosto, il Colonnello, che portò la mano destra ben tesa in  segno di saluto davanti al cappello. Tutti scattammo sull'attenti. Sul suo  cappello a forma di bombetta inglese la penna bianca, leggermente più grande  del normale, garriva impazzita alle folate di vento.  
  « Buongiorno,  signori » disse, dopo averci dato l’ordine:   « Riposo! ».  Il suo tratto  signorile sorprese tutti, date le esperienze da cui venivamo. Parlava con tono  di voce pacato, quasi sommesso ma chiarissimo, perfetto per catturare e  trattenere l'attenzione.  
        Alla  fine del suo intervento comandò ai due serventi, che avevano appena riposto il  proietto non sparato tra gli altri, di affiancarsi al pezzo. Poi, come ho già detto,  tra i sibili del vento proclamò energicamente: « Signori, si comincia. Avanti  il primo! ».  
                                              
   "Peccato  non essere il primo" pensai allora. Sembrava un'impresa così facile  centrare quella sagoma che si muoveva pigramente sul binario! Non era la prima  volta, del resto, che si andava a sparare, e con armi più diverse, ma non era  ancora mai successo con un cannone di quel calibro e in un poligono di tiro così  smisurato. Eravamo tutti impazienti di provare, sicuri dell'immancabile  successo.  
        Il  primo allievo chiamato si fece avanti e si pose al fianco del pezzo, occupando  il posto del capocannoniere con l’apparente disinvoltura di un esperto. Risuonò  chiaro nell'antro l'ordine « Caricate! ». I due serventi  prelevarono svelti un proietto, lo inserirono  nella culatta spalancata come una fornace e bloccarono l'otturatore con mosse rapide  e precise; poi si posero ai lati dell'affusto impugnando i congegni di  puntamento, in attesa di altri comandi. L' allievo, traguardando alzo, mirino e  sagoma in movimento, dette nuovi ordini che si tramutarono in rapidissimi giri  di manovelle da parte dei due serventi. La bocca da fuoco brandeggiò nella  direzione richiesta.  
         "Chissà se ci saranno sagome sufficienti per  tutti". Mentre pensavo così,  echeggiò il grido: « Fuoco! ». Seguì un  boato soffocato, come di cosa enorme che s’inabissa. Contemporaneamente il  grosso bestione ebbe una scossa violenta, nel suo affusto. Fuori, oltre la  vampa e la nuvola di fumo che uscivano dalla bocca del cannone, cercai di  seguire il proietto. Vidi come un puntino rosso dirigersi perpendicolare al  binario, ma a monte della sagoma in movimento, forse una decina di metri più su,  e risalire quindi velocissimo verso il costone opposto andando in sfracello.  Pochi secondi dopo l'eco ci restituì il tonfo della detonazione. Il finto carro  armato, intanto, proseguiva illeso il suo lento percorso sul binario.  
        Incredibile:  primo colpo e già fallito!  Che delusione!  
        Si  sentiva a tratti il rumore di sassi che franavano giù nella pietraia.  Mentre l'allievo riprendeva il suo posto  nella fila evitando il nostro sguardo, accennando col capo un leggero moto di  stizza, il Colonnello, impassibile, battendo come al solito il guanto sulla  palma sinistra, disse: « Avanti un altro! ».  
         Si  ripetè con cronometrica precisione la medesima liturgia. Poi il grido: Fuoco ».  Avemmo di nuovo la breve illusione che il colpo andasse a segno, ma, come  prima, lo schianto avvenne sulle rocce. E, tra il fumo, apparve trionfante la  sagoma indenne del carro armato che proseguì quasi allegra il suo moto. Echi  della detonazione e scrosciare di sassi, come fragorosi applausi.  
        Stava  vincendo la partita, quel diabolico aggeggio.  
        Uno  dopo l'altro, venti colpi fallirono miseramente; la sagoma proseguì il suo movimento dopo ogni sparo, illesa e irridente.  Che figura! Altro che futuri ufficiali, tiratori scelti, anche premiati ...  
        Ora  che tutti avevamo sparato un colpo, mancando tutti il bersaglio, ci aspettavamo  severi rimbrotti da parte del Colonnello, che tuttavia continuava a guardare  lontano, imperturbabile, come assorto in altri pensieri. Poi guardò l'orologio  e, con olimpica indifferenza, disse: « Signori,  c'è ancora tempo per una seconda prova, prima del pranzo… ». Disse  "pranzo", non "rancio", quel signore. Come si poteva  deludere un simile  gentiluomo?  
  « …Dunque,  avanti il primo. »  
         Nel  silenzio insolito, nelle nostre facce tese, si intuiva la rabbiosa voluttà di disintegrare quell'infame carretta, fragile  in apparenza ma sempre intatta, che si prendeva gioco di noi.  
        Quando  venne il mio turno, sentii le viscere stringersi per la tensione,  tutta la furia del mio essere concentrarsi in  un’unica idea: annientare l'infame! Era lì,  il ventre di quel verme schifoso, dentro al mirino: non poteva sfuggirmi. « Fuoco!  » gridai con tutte le mie forze, nella certezza di vederlo finalmente andare in  frantumi.  
        Ma,  ancora una volta, il mio e gli altri diciannove colpi dei miei colleghi  finirono tutti, uno dopo l'altro, vergognosamente contro il roccione a svellere  pietre. Vittorioso, il diabolico mostro mobile continuò indisturbato il suo  percorso, imperturbabile tra risonanti battimani di ricadente pietrisco.  
  "E  pensare che temevo non ci fossero sagome abbastanza per tutti!" pensai tra  me.  
  « Signori  » disse infine il colonnello con l'abituale superiore indifferenza, « dopo  pranzo riprenderemo la prova. Continueremo a oltranza, finché ci saranno  proietti ».  
        Prima  di salire sul camion volli contarli con la coda dell'occhio. Rimanevano ancora  sei file da dieci, più uno. Compresi quelli già sparati , facevano in tutto centouno colpi,  con quello cui aveva rinunciato il colonnello. Quindi ognuno di noi avrebbe  avuto ancora tre possibilità per  fare centro. Una dovizia mai vista prima. "L'ultimo colpo" pensavo,  "sarebbe stato certamente il trofeo di chi avesse fatto più centri".  
                                              
   A tavola si evitò di parlare dell'argomento del giorno. Troppo bruciante era  stato lo smacco e ne portavamo evidenti i segni in viso. Ma il pensiero di  ciascuno era tutto concentrato lì. "Possibile" mi chiedevo, "che  il colonnello abbia dimenticato di dirci qualcosa, nelle istruzioni introduttive?".  "Ma, se così fosse," rispondevo a me stesso, "sarebbe  sicuramente intervenuto a chiarire, visto il catastrofico ripetersi di colpi  falliti". "No, non è possibile" mi confermavo poi, "quel  gentiluomo ha sicuramente detto tutto quello che c'era da dire. Meglio  prepararsi per il riscatto. Restano ancora tre possibilità. Non sono poche".  Questo più o meno pensavano tutti e lo si  vedeva dal broncio delle facce scure.  
        A un  certo punto un allievo saltò fuori chiedendo retorico: « Ma Voi sapete quanto costa un colpo solo di  quelli che abbiamo sparato? ».  
      Gli  rispose subito un altro: « Dillo tu,  che sembri saperlo! ». Venne fuori una cifra sbalorditiva, ma probabile, che in  futuro avremmo potuta esibire a dimostrazione di quanto spendeva lo Stato per  preparare un ufficiale, o indirettamente per aggiungere prestigio al nostro  ruolo. Ma fu anche come spargere sale su una ferita aperta, tanto che subito  dopo scese nella sala un silenzio pensoso. Quanto denaro buttato per nulla! 
        Alla ripresa pomeridiana tutto era come al  mattino: la spelonca con l'enorme drago accovacciato, i due serventi ai lati,  le file di proiettili dall’ogiva rossa ben allineati, come papaveri al sole, la  catasta dei grossi bossoli esplosi, il vallone a U. Laggiù, nel ghiaione, il nostro  incubo in movimento perpetuo ci scherniva provocatorio e infido. Il colonnello  non aggiunse nulla a quanto aveva già detto  al mattino, nessun commento circa i risultati, nessuna osservazione, nessun  suggerimento. Impassibile nella sua statuaria superiorità, disse soltanto: « Signori, si comincia » e,  dopo una brevissima pausa,  « Avanti il  primo! ». 
       "Fortuna  che non sono il primo", pensavo ora tra me. L'allievo di turno prese  posizione accanto all'affusto, e scandì preciso la sequenza dei comandi. Al  grido « Fuoco! » tutti i nostri occhi erano rivolti a inseguire il bolide rosso  vomitato dalla grande bocca, proprio mentre, laggiù nel ghiaione, una nuvola di vapore  sospinta dal vento lo avvolgeva in un tutt'uno con l'infernale nemico.  "Centrato!" pensammo con enorme sollievo; ma subito un coro di « Nooo!  » franò nel silenzio, alla  vista dell'ogiva esplodere contro le rocce lontane e del diabolico trabiccolo  uscire assolutamente indenne dalla nuvola, come dal manto di una madonna.  "Impresa impossibile…" pensammo tutti, sconfortati e delusi.  
        Il  seguito fu il ripetersi monotono e penoso di un' interminabile liturgia,  già vista e sofferta, senza inni di gioia.  Come dalla spelonca di Polifemo, accecato, il mostro sputafuoco lanciava  rabbioso grossi dardi infiammati contro il fragile legno di Nessuno, ma una dea  ne deviava il percorso, cacciandoli a uno a uno contro il costone di roccia.  Una fatica inutile, una vergogna senza fine, una scena insopportabile. Anche il  sole era sparito da tempo, e un vento più freddo già annunciava la fine del  giorno. Fuori dalla postazione si accesero due grandi fanali che andavano a  lambire con sciabolate di luce la sagoma in movimento sul binario. Ben presto,  accanto alla catasta dei bossoli emerse solitaria, come cresta fiammeggiante di  gallo, l'ogiva rossa dell'ultimo proietto inesploso: il numero centouno.  
         Allora  il Colonnello, che era rimasto impassibile per tutta la durata di quella  catastrofe, si avvicinò all'affusto e prese il comando. « Caricate! » ordinò energico  ai due serventi, aggiustando con la mano sinistra l'asta dell'alzo. Poi comandò  loro di brandeggiare leggermente la canna del pezzo, che brucava fuori della  postazione nell'ombra della sera, cieca, simile al lungo collo di un dinosauro.  L' urlo « Fuoco! » fu subito inghiottito dal boato sommerso dello sparo e dallo  scrollarsi possente del bestione. Tutti allora potemmo vedere perfettamente  sollevarsi sul binario una nuvola di faville, al cui dissolversi apparve la  cornice sgangherata dell'infame carretta, finalmente schiantata, immobile,  contornata da lembi di telo strappato, come altrettante bandiere vinte in  battaglia, scosse dal vento.  
        Il  Colonnello uscì dall'affusto con impareggiabile classe, atletico, impeccabile.  Si scostò appena un poco e si pose sull'entrata della postazione, sempre più buia,  di fronte a noi. Poi parlò con parole pacate.  
          « Come avete notato, signori, prima di puntare  l'arma ho provveduto ad aggiustare l'alzo, che era completamente sbandato a  sinistra. E tale, purtroppo, è rimasto fin dall'inizio, così come lo avevo  postato ».  
        (Ma  come potevamo noi sapere, se non dopo averlo visto, che l'alzo era stato  spostato, e da un simile gentiluomo per giunta, allo scopo di metterci alla  prova?)  
  « Un  piccolo dettaglio… » continuò, « Un dettaglio cui nessuno di voi ha posto  attenzione, ma che non ha impedito il transito di ben cento carri armati! ».  Declinò le ultime parole soppesandole una a  una. Seguì una pausa brevissima, per chi volesse meditare. Pensando al vecchio  Erasmo, io mi ripetevo: "follia, errore, esperienza... ho trascurato il  dubbio, accidenti! Dubitate di tutto, aveva detto il colonnello".  
         Intanto  ombre più scure, trascinate dal vento, affluivano velocemente a coprire il  vallone, sottraendoci progressivamente la vista del binario. Emergeva ancora,  al centro, il profilo sfasciato della sagoma, come l'ammasso informe di una  grande medusa spiaggiata. Dal primo mattino fino al limitare della notte, noi,  futuri ufficiali, avevamo sparato ben cento colpi senza centrare una sola volta  il bersaglio. E per una simile impresa eravamo in viaggio da ben quattro  giorni.  
        Allora,  come di sfuggita, quasi a siglare la conclusione di un teorema di lapalissiana  evidenza, l'alto ufficiale concluse: « Signori, così si perdono le guerre! » e  lasciò andare il guanto che la sua mano sinistra aveva trattenuto per tutto il  suo breve discorso. Sul suo cappello la penna bianca aveva ripreso a garrire,  quasi volesse involarsi, mentre tutt'intorno le cose perdevano rapidamente  rilievo. Ed era già buio  fitto.  
      Ricorreva  in quell'anno il cinquantesimo anniversario di Caporetto...  
        
       P.S.:  Per completezza contabile va  precisato che con l'artificio del "dettaglio", quel perfetto  gentiluomo del Colonnello aveva fatto risparmiare all'Esercito un gran numero  di sagome di carro armato, (sempre che ce ne fossero a disposizione), ben più costose  dei proiettili da cannone, senza tuttavia privare noi allievi, futuri  ufficiali, di una magistrale lezione che oltrepassò di gran lunga i limiti  temporali del nostro servizio militare. Volle, però, tutta per sé, la  soddisfazione di disintegrare la (quasi certamente) unica sagoma di carro  armato allora circolante su quel fottutissimo binario. 
  
 Danilo Dal Monte 
        
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